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Beyond Love (I)

Beyond Love (I)

I. La visione sferica

 

  Beyond love there is nothing, this side of love there is all the rest, i.e. nothing. Di là dell’amore non c’è niente, di qua dell’amore c’è tutto il resto, vale a dire niente.

  L’unica vita per cui vale la pena vivere è la vita scritta.

  Pur avendo commesso innumerevoli errori nel corso della mia vita, non ho fatto che cercare il piacere supremo della verità suprema. Presumo sia per questo che ho commesso innumerevoli errori.

 

Giulio D.M. Ranzanici, Aforismi

 

Emisferiche sono la chiappe di Loin – nome per esteso Ganacachaa Bramansan – apribili, sode, plastiche, manipolabili, lisce come gommalacca, esaltanti come un tuffo nell’oceano. Sferico il culo. Le infilo l’indice nella vagina e il medio nell’ano e mi perdo in ricreative rotazioni scacciapensieri, mi immergo in meditazione. A cazzo duro o molle o barzotto sono comunque in grado di raggiungere il mio Centro. La visione sferica del culo di Loin riorganizza i miei processi mentali nel disordine prestabilito dalle contraddizioni che mi porto dietro dalla nascita, forse da prima, e che di recente ho scoperto essere allineate a un arcano canone buddhista. Dice il maestro: se cerchi la verità, tutta la verità, la risposta alle tue domande sia contemporaneamente: sì, no, sì e no, né sì né no. L’assunto è omnicomprensivo, sferico come la somma delle chiappe di Loin. In tutta onestà non si può dire che una chiappa sia male e l’altra chiappa bene. Ne consegue, secondo l’insegnamento del maestro che il culo di Loin è dio, il culo di Loin non è dio, il culo di Loin è dio e non è dio, il culo di Loin non è né dio né non-dio. Assaporando il profumo della verità appena conquistata, ritraggo le dita e me le passo sotto il naso: nessun odore, Loin è olfattivamente asettica. Mi passo le dita sulla lingua, le succhio con devozione da studioso: la fragranza è satura, frizzante senza essere pungente: propaga alle papille un microscopico perlage metallico, un’effervescenza volatile, vegetale, aromatizzata ruchetta e cuoio martellato.

Aroi mak mak, punjin, Delizioso, donna, dico.

Loin ride di gusto. Sono il tuo giocattolo, dice sorridendo.

Se non propriamente classe, Loin trasuda la grazia dell’istinto, dell’intuito e dell’intelligenza messe insieme e a qualche maniera portate a segno, per la sua età (trent’anni appena compiuti) si rivela oltremodo consapevole di sé. Nel corso del nostro primo incontro mi ha confidato di essere impegnata in una relazione complicata con il suo boy-friend tedesco, in questi giorni confinato nella sua Germania allagata dalle piogge come un Paese tropicale. Loin si dice sicura dell’amore del tedesco. La prova, dice lei, è che lui le invia cospicui bonifici internazionali affinché lei, penso io, non faccia per esempio con me ciò per cui io la pago in contanti. La prova è che lui la tempesta di telefonate, la tampina ossessivamente e la controlla a distanza via Skype con video chiamate tanto inopportune quanto frequenti. Quando il suo smartphone squilla, in qualunque attività siamo impegnati, Loin schizza fuori dall’alcova, si veste alla velocità della sorella di Flash se Flash ne avesse una, e poi si precipita nell’altra stanza, quella aperta al pubblico, con il cellulare che le scotta tra le dita.

Solo soletto sul matrimoniale a ore, la sento litigare con il suo Sigfrido. Loin soffre come una bestia. Perciò è convinta di amarlo. Eccola qui, facile facile, l’equazione dell’Amore: soffro ergo amo.

Litighiamo sempre, litighiamo per niente, dice ogni volta al suo ritorno. Scusami, dice.

Non preoccuparti, ho dormito.

In effetti, quando lei è di là, a volte dormo. Altre volte me ne resto lì, nudo sul letto, rannicchiato come un feto. Origlio e non origlio, sento e non sento, come un neonato intorpidito sente i genitori gridarsi addosso nella stanza accanto.

Quando non dormo, il mio Centro prende la parola.

Che ci fai qui? dice ogni volta. Quanto è utile tutto questo alla tua vita? Sei sicuro di non far sesso solo per poterne scrivere?

Le relazioni, rispondo io, le relazioni umane per me assumono significato soltanto dopo averne scritto, mentre le vivo di regola mi sopraffanno, non capisco più niente. Forse hai ragione, Centro, forse cerco relazioni solo per poterne scrivere, capirne qualcosa, trasformarmi. Scrivere mi rigenera, mi ricrea, mi ridefinisce.

E scrivere altro, qualche volta?

No, signorino. In questo momento non voglio scrivere se non di figa e dio. Cosa credi, Centro? L’ho quasi finito quel racconto dove io non compaio se non fittiziamente, per delega, per interposti personaggi. Qualche pagina piuttosto buona l’ho anche buttata giù. Ma a rileggerla a freddo non è buona per niente, è merda, trasuda ipocrisia, è finta, è fasulla, è letteraria. Per carità, non che la mia vita non lo sia, letteraria, romanzesca quanto meno. Ma almeno questa è vita, la mia vita. E poi quel Danny Delaware, quell’inglese aristocratico, quel pazzo criminale, non ne posso più di lui…  Ti pare edificante il gran finale al Full Moon Party di Ko Pangan con Sir Delaware che per puro divertimento massacra con il tirapugni quelle due ragazzine svedesi? Ti pare bello vedere i loro faccini d’angelo maciullati dall’acciaio, i denti rotti o strappati alle radici, le mandibole spezzate, disarticolate? Quell’occhio azzurro penzolante fuori dell’orbita, appeso al nervo ottico come un acino d’uva insanguinato? E quel codardo del suo sedicente amico, sì, il bibliotecario di Parma, quell’inetto obeso che piagnucolava, e non interveniva… Come credi che si stia, Centro, con queste immagini dentro la testa? Credi che non ne abbia abbastanza di violenza, guerre, bagni di sangue? Credi avessi bisogno di tutti quegli orrori mentre orrori simili, ma questi veri, si consumavano a Istanbul, dove era Alice. Come credi che mi sia sentito? Mia figlia a Piazza Taksim incastrata tra la folla impazzita e la polizia inferocita, nel dolore, nel panico, nella furia assassina, e io qui a Samui a scorrere i notiziari pieni di turchi insanguinati. Mi spiace, Centro, Danny Delaware non lo finirò: dovesse anche venirne fuori un buon racconto, dalle mie dita non uscirà più un rigo di quella storia. Del resto lo vedi anche tu che quasi non la leggo più, la narrativa contemporanea. Solo Proust, solo Fante. E un po’ di Verne per distrarmi. Lo sai che mi nutro soprattutto di saggistica: storia sumera e assiro-babilonese, storia medievale, storia dell’arte, storia della letteratura greca, storia della letteratura americana, biologia, filosofia, storia delle religioni, fisica classica e fisica quantistica, astronomia, cosmogonia, cosmologia, teogonia, esoterismo, ginecologia applicata. Mi nutro di poesia: Whitman, Lucrezio, Poliziano. Leggo Borges, ma solo quando sono di umore cerebrale. Leggo Neruda quando ho voglia di frutta cerebrale. Leggo Metastasio per pensare sorridendo. La narrativa di oggi è la madre di Netflix: fiumi di sangue, scannamenti, mostri: quasi più oscura della realtà mediatica…

Perché non la metti a frutto la tua sensibilità? dice ogni volta il Centro con quel suo tono risaputo che dà sui nervi.

Soldi?

No. Gli altri. Potresti passare un messaggio positivo, un po’ alla Terzani, per capirci.

Perché, secondo te Centro, cosa sto facendo, invece? Sei tremendo. Ti faccio propaganda in ogni pagina, parlo di te ogni secondo: da ogni mia riga, da ogni singola parola emerge l’unità del tutto, tu, dio, la figa, gli scrittori, l’amore, la vita, la morte, l’umanità e la merda… Tutto è uno, e tu, tu mi vieni a dire che questo non è un messaggio positivo?

Forse, ma pochi lo comprendono.

Problema loro.

Perché non utilizzarla meglio la tua sensibilità, perché non la usi per aiutare, per far comprendere, creare luce anziché ombra?

E come puoi vederla la luce se non per contrasto con l’ombra che proietta, furbo?

D’accordo, ma è un peccato… con la sensibilità che hai…

Ancora. Proprio non riesci a capire che l’eccesso di sensibilità confonde. Troppi stimoli mi spiazzano, e io ne ricevo sempre, ovunque, a miliardi. Mi entrano tutti. Per non parlare degli stimoli autonomi, interiori. Ecco perché non mi piacciono le feste con più di una persona o due me compreso. Per questo ho bisogno di palme palme palme, e ancora palme. In mezzo alla giungla, solo, in mezzo alla foresta, certe sere persino il silenzio mi rimbomba nelle orecchie con più fracasso della house dei go-go bar. Hai altro da rimproverarmi, Centro? Non basta quella là che non si decide a tornare? Non basto io a sconquassarmi la testa da me?

Il mio Centro tace. Fa l’offeso, ma almeno tace. Sempre così.

Poi, quando io e il mio Centro abbiamo litigato a sufficienza, quando Loin e il suo boy-friend hanno litigato a sufficienza (altra ragione per cui non sto in una relazione: se voglio litigare basto a me stesso), lei ricompare. Scalza e silenziosa svolge le sue spire al mio fianco. Non mi volto a guardarla: è bella da far male. Si sveste rapidamente e si rimette nuda, liscia e sinuosa come un serpente di malto. La sommità del serpente è incorniciata da un caschetto di capelli neri e sottili. Lucidissimi. Li vedo adagiarsi sulle mie cosce come una colata di catrame. Gli occhi al soffitto, il cellulare stretto tra le mani, Loin si confida.

Cosa devo fare con lui?

In materia non do consigli se non quello di vivere soli, baby. Non è che si può fumare qui?

 

Bo Phut, Samui, Thailand, June 7th, 2013 – © 2018 by Giulio D.M. Ranzanici – All Rights Reserved

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