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Bill (Estratto dal romanzo Madam, tutt’un’altra storia – Presto disponibile)

Bill (Estratto dal romanzo Madam, tutt’un’altra storia – Presto disponibile)

Se non avesse amato leggere, Bill sarebbe stato un bue a trecentosessanta gradi. Invece adorava John Fante. Di lui aveva letto e riletto tutto, più volte. Lo leggeva ancora. Feinti – così lo chiamava – discendeva da una famiglia di italiani, come la sua. Billy diceva che Fante era vero. Diceva che scriveva con l’anima, e con le budella, e con il sangue. Diceva che era il più grande scrittore americano del Novecento. Se aveva ragione, l’aveva avuta molti anni prima che la critica letteraria si degnasse di riconoscerne il genio e di conclamarlo universalmente, da morto, il numero uno – cento volte più grande, diceva Bill, di un Hemingway moltiplicato per ventisette virgola otto o virgola nove. Come il Fante ragazzo, così il Bill di primo pelo lavorò in un conservificio di pesce (d’acqua dolce però, pescato del lago Michigan), e come Fante non resistette che poche settimane. Come Fante e come ogni uomo e donna sulla terra, Bill ebbe i suoi amori alterni. Da giovane, non era stato brutto, e i suoi occhi azzurri di origine normanna avevano saputo scavare dentro i ventricoli delle ragazze e li avevano fatti palpitare. Ma le puledre (l’espressione è sua), quando si trovavano di fronte al dunque, nitrivano di paura e poi si davano al galoppo. Due lattine di birra sovrapposte, diceva con un certo orgoglio. Non sempre fa piacere, si rabbuiava, e da ragazzo mica lo capivo. Si era innamorato, seriamente, una sola volta. Un’italo-americana come lui (e come il Grande John). Lei si chiamava Mary (come la madre di Bill), era una cattolica osservante, di umili origini ma di buona famiglia, credeva nel peccato, studiava lettere antiche, e non andava oltre il petting. Bill non gliel’aveva vista mai. Mi disse che quando si strofinavano con applicazione sul divano (dei genitori di lei), riuscivano a sudarsi un vero orgasmo. Mary era minuta, castana, e, diceva Bill, le ascelle le odoravano di biscottini al forno prima, e di agnello al forno poi. La cosa non lo disturbava, anzi, gli metteva voglia, diceva, di riapplicarsi nell’arte del fiammifero strofinato sullo specchio (alludeva alla liscezza di quella gonna di gabardine foderata di seta, e la sua metafora mi faceva pensare a Fante). Con la promessa di sposarlo, Mary lo persuase a trovarsi un lavoro stabile. Prima ancora di iniziare a cercarlo, Bill venne arruolato nell’esercito e spedito in volo di là del Pacifico, a diecimila miglia da Wicker Park, Chicago, Illinois.

Al momento del congedo, Mary lo abbracciò stretto e disse Ti aspetterò. Mancavano tre giorni al Natale del 1967, Bill aveva vent’anni appena compiuti (novembre, Scorpione), Mary ne aveva uno e mezzo di più (aprile, Ariete), la guerra del Vietnam infuriava ufficialmente da sette anni, e gli hippy e i pacifisti avevano preso, da casa, una recisa posizione avversa aspirando fumi di cannabis e girando in tondo con cartelli di protesta. Sotto la luce gialla del lampione Mary ardeva nel suo paltoncino color crema con il collo di volpe. Con la bustina in testa e il cappottone verde militare lungo fino alle caviglie, Bill torreggiava su di lei splendido e pugnace come uno Shiva o un Marte pronto all’attacco. A Chicago, quella sera, c’erano diciotto gradi sotto zero, e il giorno dopo, alla base aerea di Bien Hoa, Vietnam del Sud, ce n’erano cinquantatré di più. Al momento dello sbarco, lo sbalzo termico indusse Bill a liberarsi del cappotto in cui era rimasto avvolto durante il trasferimento, non perché a bordo facesse particolarmente freddo, disse, ma perché era impregnato del profumo di biscottini al forno.

Del suo coinvolgimento personale nella guerra del Vietnam non venni a sapere granché, e quel poco che mi disse a spizzichi e bocconi discordava sempre con quello che mi aveva detto una settimana prima o che mi avrebbe detto una settimana dopo. Ora era stato furiere, ora carrista, ora addetto alle comunicazioni, ora cuciniere. Diceva di esser stato fatto prigioniero e torturato dai vietcong (non si addentrò mai nei dettagli), di essere riuscito a fuggire accoppando a mani nude tre dei suoi aguzzini, di essere stato colpito a un ginocchio durante la fuga, di aver zoppicato per venti miglia (venti miglia e novecento iarde, precisò), e di essere alla fine incappato in un’insperata postazione yankee asserragliata in un angolo sperduto della giungla, dove era stato medicato e poi rispedito al suo reparto. L’esibizione al comandante dei tre piastrini strappati dal collo dei miliziani comunisti straziati a mani nude gli era valsa una licenza premio nella vicina Bangkok. Qui Billy aveva scoperto le delizie dell’Oriente e contribuito a diffondere, con lo sforzo congiunto di migliaia di commilitoni, quel costume che nel tempo avrebbe conferito a miriadi di ragazzine affabili e sorridenti il lignaggio di troie professioniste, e convertito la Thailandia in Toylandia o, in località più sature come Pattaya, in Toilettelandia (espressioni sue – di Bill).

Tre o quattro anni dopo, venne definitivamente congedato dall’esercito per aver massacrato un ufficiale, già funzionario (alla divisione mutui) della Corporate Bank Ltd, succursale di Mobile, Alabama, già Gran Titano del Klu Klux Klan della stessa Mobile, un tipo sulle duecentosessanta libbre dalla pelle rosea e gli occhi cerulei, arruolato nell’esercito con il grado di capitano, che passava le ore di ozio tra un’incursione e l’altra tormentando un certo Freddie, garagista, nero, originario di Chillicote, Missouri.

L’ingiustizia, i soprusi mi mandano fuori di testa, mi disse una sera in cui la pioggia di monsone veniva giù a secchiate di là della veranda. Quel nazista, anziché prendersela con i viet si divertiva a torturare Freddie. Un mattino gli puntò contro la pistola e gli ordinò di leccargli gli stivali. Era grosso il capitano, grande e grosso come un bue muschiato, ma cosa vuoi, a quei tempi dovevo ancora incontrarlo uno capace di tirarmi giù; anche adesso, se è per quello. Però aveva il cannone in mano il porco, così mi toccò stare a guardare il povero Freddie – eravamo amici, sai, il primo vero amico della mia fottuta vita. Mi toccò vederlo mettersi giù carponi e leccare quei luridi stivali come un cane. Il maiale intanto se la rideva e la pancia gli tremolava tutta e si guardava attorno compiaciuto, e i suoi ragazzi ridacchiavano, quei fottuti leccaculo. Quando si stancò del suo giochetto, il capitano disse Alzati, e mise la pistola nella fondina e poi chiuse la fondina con la fibbia. Freddie si tirò su e io dissi Complimenti capitano, e gli andai incontro sorridendo. Bastò meno di quel che pensavo. Ventitré secondi, forse ventiquattro. Un braccio rotto, tre denti in meno, un ginocchio scardinato e l’orecchio sinistro che gli penzolava dalla tempia. Mi arrestarono, mi processarono, mi misero ai ferri per non so per quanto tempo e poi mi rispedirono a casa come una valigia. Quando varcai la soglia, mia madre mi abbracciò, e fu l’unica a farlo. La gente ci odiava, noi reduci di guerra. Per strada, se capivano che avevi fatto il Vietnam, ti sputavano addosso. Eppure, mica l’avevamo scelto noi di fare per quella guerra di merda. O partivi o eri un disertore, ti sbattevano in gattabuia e gettavano via la chiave. E quando tornavi dopo aver visto quello che avevi visto – i bambini, Massimiliano, quello che non facevano ai bambini e alle bambine, tutti, Viet e Americani, alleati e contro alleati, tutti diavoli, cannibali –, quando tornavi a casa, la tua gente, la gente per cui avevi combattuto, ti cagava in testa.

Bill diede uno sgrullata alla sua birra, poi riprese il suo racconto. Una sera sto rincasando mezzo ubriaco. Sono lì sul marciapiedi in procinto di attraversare la North Milwaukee Avenue, quando tre tizi, tre fottuti hippy su un furgoncino Volkswagen tutto fiori, scritte e simboli di pace e amore, uno di loro tira giù il finestrino, una faccia di cazzo con i capelli alla Jimmy Hendrix, e mi grida addosso Peace and Love, fottiti, marine! Il furgone è fermo al semaforo rosso con il motore che frulla al minimo, io mi accosto al finestrino aperto, guardo il tipo dentro gli occhi e dico Ripeti. E lui con un sorrisino fatto di marjuana dice Fottiti marine di merda, crepa! Getto un’occhiata agli altri due, una ragazzina dai capelli biondi, musino angelico e occhi celesti da pervertita nata, e uno scemo con i capelli lunghi fino a metà schiena e i denti in fuori, da coniglio. Penso ai tre viet che ho fatto fuori a mani nude, tre guerriglieri addestrati, veloci, duri come il bambù. Penso che con questi idioti impiegherei trentaquattro secondi, forse trentacinque. Poi penso che non ho voglia di finire la mia vita sulla sedia elettrica o in una cella del cazzo. Così, lascio perdere, li lascio vivere. Però gli faccio la mossa del muletto, la conosci la mossa del muletto?

Feci segno di no.

Li vedi questi? Bill mi mostrò gli avambracci. Sotto i lampi del monsone si stagliavano massicci come ciocchi di quercia. Ecco, disse, mi piego sulle ginocchia, infilo le braccia sotto la scocca del furgone, le tengo lì, bloccate a novanta gradi, forse novantacinque, per un po’ e poi mi tirò su di scatto. Ero ancora lontano dai trent’anni, capisci? Il furgone si alza di lato, appena appena, allora punto la fronte sulla fiancata come avevo visto fare agli elefanti con gli alberi giù in Vietnam, spingo con le gambe, e, svram, il furgone si accascia su un fianco. Sento i tre stronzi urlare come galline scannate. Guardo dentro. Se ne stanno laggiù, uno addosso all’altro, tutti schiacciati contro la portiera. Piagnucolano, implorano pietà. Ne ho già avuta troppa, e finisco il mio lavoro. Mi metto a fianco del furgone e con una spalla comincio a spingere sulla scocca, mi brucio un po’ il collo con qualcosa, ma per chi ha assaporato i servizietti dei viet una scottatura è una carezza. Spingo e spingo finché la carcassa comincia a dondolare, e alla fine si ribalta in uno scroscio di lamiere e vetri infranti. Fa un certo effetto, sai, vedere una macchina con le ruote in su e i fari ancora accesi nel bel mezzo di Chicago. Dovevi vedere le facce di quelli che passavano di lì, dovevi! Si sporgevano dalle auto con gli occhi fuori della testa e poi si davano sgommando. Avrebbero dovuto pagarmi il biglietto, uno spettacolo meglio di King Kong. Prima di filarmela, infilo la testa dentro il finestrino. I tre idioti adesso se ne stanno sottosopra, tutti aggrovigliati, schiacciati contro il cielo del furgone. Li guardo truce, cattivo, e dico Peace and Love, figli di puttana! E poi schizzo via a gambe levate perché si sente una sirena in avvicinamento urlare incazzatissima.

Bill stette lì a guardarsi gli avambracci per un po’, forse a domandarsi se gli sarebbe riuscita ancora la mossa del muletto, poi riprese il suo racconto. Ti dicevo, quando entro in casa appena tornato dal Vietnam, mia madre mi abbraccia, ma è un abbraccio sfiatato, senza energia. Poi si stacca, fa un passetto indietro e dice Papà è morto l’anno scorso, te l’ho scritto, non ti consegnavano la posta? Un infarto sul lavoro, dicono che non ha sofferto, dicono, all’improvviso è crollato sul nastro, hanno dovuto fermare la linea per recuperarlo; faccio la cameriera adesso, una famiglia ricca del North Side; ci sono due lettere per te sul televisore, è a colori adesso, giapponese, l’aveva preso tuo padre quattro giorni prima di morire, l’aveva comperato a rate; leggile con comodo, le tue lettere, io ti scaldo le lasagne. Apro le buste impolverate, la prima lettera era di Freddie, mi ringraziava, anche se il mio aiutino gli era costato trenta giorni di arresto negli alloggi – puah, chiuso dentro la sua tenda per un mese per aver leccato gli stivali a un porco che lo teneva sotto tiro. La seconda lettera era di Mary. Diceva che si era sposata con un rappresentante di rubinetti di fuori, a Chicago di passaggio, incontrato nel reparto merceria di un grande magazzino, il Save Money More Honey giù nel Bronzeville. Mary e il suo rappresentante di rubinetti, tra i bottoni e le cerniere, tra gli aghi e le spolette, te lo immagini, si sfiorano le mani e nasce l’amore, puah, l’amore a prima vista, l’amore in merceria, l’amore ai tempi dei grandi magazzini. Nella lettera Mary Ti Aspetterò non mi comunicava dove si erano trasferiti, ovvio, e il timbro postale era scolorito, non si leggeva più. Alla fine Mary Il Peccato diceva Mi spiace Bill, mi spiace tanto Billy (non ho mai capito come ti chiami di preciso), perdonami, se puoi. Secondo te, dovrei perdonarla?

Nei giorni che seguirono, continuò Bill, cercai lavoro, un lavoro qualunque. Non trovai niente. Niente di niente. I reduci avevano fama di essere tutti pazzi e inaffidabili. Così mi butto negli incontri clandestini. Mi va bene. Non perdo un match. Chi scommette su di me vince sempre, sempre meno però, io sono molto più di un favorito, sono Billy Dynamite, sono imbattibile. La boxe mi piace, carezzo l’idea di darmi al professionismo, ma non ho la tecnica. Vinco perché combatto come combattevo contro i viet, calci, morsi, gomitate, prese a forbice, cravatte, ginocchiate nelle palle. La boxe impone regole, vuole eleganza, ma se nella vita avessi fatto l’elegante non sarei qui a raccontarti queste cose, baby. Alla fine Bill Dynamite non lo vuole più nessuno, chi scommetterebbe su uno che vince sempre?

Una sera mia madre di ritorno dal lavoro, una sera di dicembre viene falciata da un furgone vengo a sapere tutto fiori e fiorellini peace and love come quello che avevo ribaltato. Quando arrivo all’ospedale, la trovo sotto, all’obitorio. Non è un bello spettacolo, è tutta schiacciata. Prima di andarmene, non posso neanche darle un bacio in fronte perché la fronte non c’è più. Esco dall’obitorio, fuori ci sono diciotto gradi sottozero, forse diciannove, non ho più nessuno al mondo, due settimane dopo atterro a Bangkok e ce ne sono cinquantacinque di più. O cinquantasei, non mi ricordo di preciso.

Seguirono trentacinque, forse quarant’anni di vita spesa su e giù per la Thailandia, di cui Bill parlava poco. Seppi solo che prima di stabilirsi a Ko Samui aveva gironzolato tra Bangkok, Pattaya, Chiang Mai e Phuket. Quando finì i risparmi che la madre gli aveva lasciato (nel doppio fondo del vaso dello zucchero, precisò), andò avanti sopravvivendo con la sua pensione di reduce di guerra (decurtata per essere stato radiato dall’esercito) e con gli incontri clandestini di thai boxe. Qui i calci erano ammessi, anzi previsti. Ma non i morsi, le gomitate, i calci nei testicoli, le cravatte, eccetera, sicché la storia si ripeté come tutte le storie sempre si ripetono. All’inizio Bill si faceva un nome nella località dove si era stabilito, poi finiva che lo cacciavano via perché violava le regole, e se anche non le violava lo cacciavano perché era troppo forte, e non c’era gusto.

A Pattaya provarono a farlo combattere contro tre avversari per volta, ma Bill Dynamite King (o Billy Dynamite King Kong) vinceva sempre. Sgominava. Ah, quanto gli piaceva raccontarmi di quando scaraventava gli sfidanti sul pubblico, a dieci metri di distanza – erano leggeri come piume i pugili thai, volavano via strillando come ladyboy infinocchiate, diceva, e gli occhi gli ridevano di felicità.

Sempre a Pattaya, provarono a scagliargli addosso cinque sfidanti per volta. Niente da fare, Bill vinceva, stravinceva, e i suoi avversari non avrebbero combattuto più. Alla fine venne cacciato, escluso, emarginato. La storia si ripeté identica a Chiang Mai e poi a Phuket.

Alla fine approdò a Samui quando – diceva – la Samui dei samuiani era l’isola più pigra del mondo, né strade asfaltate né aeroporto, qualche fottuto hippy attorno al fuoco e i primi turisti non saccapelisti che dormivano nelle case dei thai. Pagavano venti bath a notte e mangiavano con cinque, e i samuiani erano ospitali e sempre sorridenti.

E ti credo, disse strizzandomi l’occhio, vivevano di raccolta di noci di cocco e di pesce – cocchi che cadevano da sé, pesca che si faceva da sé, con le reti fisse a dieci metri da riva. Per il resto del tempo se ne stavano nella foresta a oziare, e si massaggiavano a vicenda e facevano bum bum da mane a sera. Il paradiso in terra, avresti dovuto vedere, avresti.

Poi, per circa due anni lavorò alle dipendenze di Suppatra Buttakiao, detta la Guercia, ex regina dei bordelli di Bangkok nonché mia attuale padrona di casa, come già detto. Mattone su mattone Bill tirò su il Sunrise Smile praticamente a mani nude. Alla fine lei fu di parola e lo remunerò come promesso intestandogli un villino. Ho idea che per un po’ i due siano stati amanti. Anni dopo, il giorno in cui mi trasferii al Sunrise Smile, incontrai Bill per la prima volta. Patcharee era dentro casa con Suppatra, e lui mi venne incontro. Indossava solo un perizoma.

Puoi chiamarmi Bill oppure Billy, disse allungandomi la mano. Fa come ti pare, per me è lo stesso. Mi strinse la mano e mi spappolò il metacarpo.

Sai quanti secondi riesce a vivere una gallina decapitata? disse poi meditabondo.

Una gallina decapitata.

Già, una gallina senza testa. E mi sussurrò il dato preciso come mi stesse rivelando il settimo segreto di Fatima.

E ora, eccolo qui, il grande Bill disperato senza più…

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