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Due mondi e un’isola

Due mondi e un’isola

 Nel novembre del 1840 un mercantile diretto all’arcipelago della Sonda gettò l’ancora nel golfo di Surabaya, sul versante nordorientale dell’isola di Giava. Dopo settimane di ininterrotta navigazione nell’Oceano Indiano, la nave doveva essere rifornita, e, com’è naturale, l’equipaggio sentiva la necessità della terraferma. A eccezione delle sentinelle, ufficiali e marinai si portarono alle murate predisponendosi a sbarcare. Al momento di trasbordare sulle scialuppe dirette al porto, però, un uomo dichiarò che avrebbe preferito restare sulla nave. Era il dottor Mayer, medico di bordo. Alle amichevoli insistenze dei colleghi, l’ufficiale replicò che era pur libero di scegliere.

Libero di scegliere. Il primo a sorprendersi di queste parole, fu proprio lui, il dottor Mayer. In realtà, come giorni dopo scrisse egli stesso in una lettera alla fidanzata, non si era sentito libero per niente, bensì costretto da una forza irresistibile che lo costringeva a restare sulla nave.

Avrei voluto sbarcare insieme a tutti gli altri, scrisse testualmente, ma non potevo, qualcosa mi tratteneva a bordo.

Eppure persino l’aspetto fisico denunciava l’indole pragmatica del dottor Mayer: uomo corpulento che credeva solo in ciò che vedeva e che sosteneva fermamente che per ogni effetto esiste sempre una causa precisa. Né il suo determinismo ammetteva eccezioni, se non quelle dovute ai limiti della sua stessa intelligenza.

Non era un fisico né un naturalista. Non gli interessava né la psicologia, né la psichiatria. Ignorava le neonate teorie sull’isteria che il neurologo Charcot andava sperimentando in lungo e in largo per mezza Francia. Sconfessava apertamente il magnetismo animale che si stava diffondendo in tutto il mondo occidentale come una vera e propria epidemia di tavolini semoventi, ectoplasmi, spettri e anime dannate vaganti per i corridoi di vecchi manieri. Il dottor Mayer non era che un medico, capace quanto lo deve essere un medico di bordo, ma in definitiva niente più che un professionista nel suo campo.

Eppure, malgrado l’avversione per qualsivoglia speculazione metafisica, fu proprio lui – costretto a restare a bordo di quel mercantile alla fonda nel golfo di Surabaya – a dare i natali alla teoria della conservazione dell’energia. Non sorprende che questa legge fisica sia stata formulata da uno scettico: capita che il destino tradisca le attese delle più ragionevoli previsioni. Anziché chiedersi perché la teoria della conservazione dell’energia sia penetrata in Mayer, vale invece la pena domandarsi come ciò sia avvenuto.

Al riguardo Jung – interessatosi al caso – si appellò al concetto di inconscio assoluto o collettivo, intendendosi per tale quel patrimonio di idee antiche, profonde e generali che si possono trovare nella testa di tutti. Jung affermò che l’idea dell’energia e della sua conservazione è un’immagine originaria che prima di affiorare nella mente del Mayer era latente nell’inconscio collettivo. In sostanza, secondo Jung, il medico non creò quella teoria, né essa derivò dalla confluenza di idee preesistenti o di altre ipotesi scientifiche allora note, ma si sviluppò autonomamente all’interno del suo autore e lo condizionò.

A riprova della spiegazione, Jung sottolineò come le religioni primitive nelle più diverse zone del mondo siano tutte fondate sull’immagine del dinamismo energetico. L’animismo, per esempio, non è da riferirsi tanto all’anima e allo spirito, quanto piuttosto a un concetto assai più ampio, che senz’altro racchiude in sé l’anima e lo spirito, ma comprende anche il divino, la salute, la forza fisica, la fertilità, il potere, la magia, l’influsso, il prestigio, il rimedio medicinale, nonché le emozioni più forti come quelle che riguardano la sfera affettiva.

La tesi di Jung sembra convincente, tanto più se si considera che nella stessa lettera Mayer ammette di essersi sentito ispirato, quasi folgorato da lampi di genio, seguiti da un lavoro intensissimo. Man mano che materiale sempre nuovo gli affiorava alla coscienza, egli – chiuso a chiave nella sua cabina e del tutto disinteressato a visitare quei luoghi esotici – lo trascriveva febbrilmente e macchinalmente, come un automa a pieno ritmo.

Ciò che colpisce è la resistenza che il dottor Mayer continuò a opporre alla trascendenza, dopo che una teoria di fisica di tale portata era approdata a lui per via indubbiamente sovrannaturale. Ma nemmeno questo enigma è senza soluzione. Come ogni resistenza, anche quella del dottor Mayer è frutto di una difesa: accettare l’origine metafisica di un’idea avrebbe scardinato il suo equilibrio mentale, fondato sul credo di chi non crede, sul dogma inespugnabile dell’agnostico costituzionale.

Che si trattasse di un atteggiamento difensivo è comprovato dall’accanimento dello stesso Mayer contro qualsiasi forma di trascendenza: nella lettera citata egli non parlò di indifferenza, ma di enorme disgusto per la metafisica. E aggiunse: Riguardo a come tutto ciò possa essere accaduto a un uomo non esperto di fisica, preferisco naturalmente non esprimermi.

Con la rimozione della sua incredibile esperienza – o meglio, non trovandone la spiegazione sul piano materiale e scacciando con decisione la sola idea di poterla scoprire in un piano altro – Mayer eluse a un tempo il rischio della follia e il problema di un’eventuale conversione. L’Invisibile lo aveva investito, e lui dichiarava di non averlo nemmeno visto. Questa miscela di ottusità e pragmatismo gli consentì di vivere serenamente fino alla fine dei suoi giorni.

 

Racconto tratto da Onde Rosse, Roma, dicembre 1998; revisionato a Lamai, Ko Samui, Th, gennaio 2019

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