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Epilogo di un romanzo incompiuto

Epilogo di un romanzo incompiuto

Anni fa ho scritto un romanzo, L’amore spietato, che narra le vicissitudini di un’artista precipitata nel vortice dell’eroina e dopo anni di disperazione quasi miracolosamente risorta grazie all’aiuto trovato nell’associazione Narcotici Anonimi. Quel libro venne seriamente preso in considerazione da una delle più importanti major dell’editoria italiana che ci lavorò per mesi, salvo poi rinunciare alla pubblicazione trovandolo troppo scottante e troppo profondo per il vasto pubblico. Tempo fa mi sono ripromesso di revisionare quel romanzo per renderlo disponibile al mio ottimo pubblico selezionato: cosa che farò presto.

In questi giorni, rovistando nel computer, mi sono imbattuto in una sorta di sequel de L’amore spietato da me scritto nei mesi immediatamente successivi alla stesura di quest’ultimo. Si intitola L’amore aspettato, e secondo me non è che un plagio incompiuto, una zoppa replica del romanzo originario. Ma l’epilogo, se non altro come esercizio di stile (postmodernista), merita secondo me di essere preso in considerazione. Eccolo.

 

Una parola va affiorando dal bianco latteo dello schermo, la stessa in ogni lingua, diversa solo nel suono, una parola precisa, connettiva, che abbraccia il mondo come il panorama in un dipinto, una parola che per destinatari ha persone e cose che non sono a priori buone o cattive – semplicemente sono –, che pacifica le pupille serpeggianti nelle iridi azzurre, o verdi, o brunite, o nere, e le pustole infette, gialle e rosse come fiamme, sbocciate da perseveranti semine batteriche di aghi che furono lucenti, e i corpi disabitati che si aggirano per il Needle Park, Zurigo, o in un vicolo del Carmine, o in un tugurio di Verona o di Genova, vuoti contenitori d’odio istoriati di svastiche stampigliate come diciture di sottoprodotti umani, eppure umani, in scadenza o già scaduti, e il sangue e il vomito, amici onnipresenti a una festa solitaria dove la morte è ospite atteso, e il sudore gelato in piena estate, e la memoria corta, e i pensieri erratici, le emozioni compulsive, e l’oblio al cospetto di un mare tenebroso, cerebrale, sotto un cielo infetto, senza stelle; una parola, la stessa in ogni lingua, identica nel significato, che ha il sapore di un mantra salvifico, di un frutto maturo, di una conseguenza, di un rimbalzo della vista – la neve granulosa che sotto la spinta del tergicristallo rimbalza come polistirolo dal parabrezza di una Jaguar, e bianche spiagge immacolate, calcinate di luce, e scogli rugginosi che bucano il turchese del mare, e un mare oleoso con tre figure scarne, nere nel controluce aranciato, e la nera cervice di Loris, e le candide, miagolanti cosce di Mia, lunghe e lisce come zanne, e la strada di terra battuta rosso corallo che ferisce la foresta, e la natura delle cose, la loro densità, lo sbatter d’ali di un magico libro blu, con la seconda gamba della N in copertina appuntita come un ago d’oro, e una certa stanza sotterranea sottesa di miracoli, e la pulizia di oggi, fragrante come pane o panni stesi, e l’azzurro morbido degli occhi di un fratello, e la massa scintillante di Saturno con gli anelli bianchi e neri, e gli arcobaleni nelle risate di Gherardo, e lo sguardo ardente di Nicola mentre scarta la sua prima consolle professionale, e le sfumature ramate che lampeggiano tra le onde dei capelli di Giada e – le stesse, meno accese – tra i riccioli di Station, e l’umido luccicore sul torso nudo di Glauco, e le vaporose fluttuazioni de La Algida, e l’arancio ossigenato e pervasivo del Parco di Monza, e il blu minaccioso dell’unghia blu di Ursula, e il dito indaco di Hassan che adombra il rosa del granito di Cheope, e togliendo gli occhi dallo schermo, le verdi iridi strizzate del mio gatto illuminate dall’interno, i riflessi color platino sul suo manto argentato, le prime macchie di caffè sul dorso della mia mano intenta a carezzarlo, e più in alto, oltre la finestra spalancata sui prati di Stargate, i rami torti dell’ulivo da cui trapela, a valle, la città vibrante in un tremolio di foglie argentee, e tutto intorno in lungo e in largo, i mille laghi puntiformi di San Polo, e il tratteggio della penisola di Sirmione, e l’emiciclo delle Alpi steso all’orizzonte, e il Monte Rosa che lo innalza… una parola, la stessa in ogni lingua, diversa solo nel suono, identica nel significato, una parola leggera, e vera, e inclusiva come un infinito globo di luce. Grazie.

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