Con il libro sottobraccio, uscivo dal Cervo Nero e percorrevo la strada per il cimitero che, appena fuori del paese, prendeva a animarsi alla mia sinistra cigolando a ogni refolo, e che, con tutto quel ferro battuto, quelle arricciature, quegli angeli contorti e quelle croci gotiche, anni dopo avrei associato ai funerei fotogrammi di Tim Burton. Dal ciglio della strada restavo a fissare la ferraglia brunita, arrugginita qua e là, che mi faceva pensare al relitto di un naufragio in un oceano disseccato. Intanto mi figuravo le ossa, i teschi, le tibie e i femori che sotto il letto di quel mare immaginato vivificavano il metallo dei simboli che, rappresentandoli, gemevano sopra di loro. Mi chiedevo come sarebbe stata la mia croce, e se, qualora fossi morto di lì a poco, per il colore della mia bara avrebbero scelto il bianco. Vedevo il funerale: in testa il prete con la stola viola, mamma che lo seguiva spezzata in due, dietro gli uomini e le donne che profittavano delle litanie per far commenti, pettegolare, chiacchierare del più e del meno.
Al mio funerale mio padre non c’era. Forse era già morto o forse era troppo ubriaco per prendervi parte. Del resto, mancavo anch’io, dato che a quell’età mi era impossibile rappresentarmi a un tempo regista e protagonista della stessa fantasticheria: la mia bara bianca, sorretta da quattro portantini in nero e seguita dal corteo, nella mia visione non c’era; e quando invece c’era, non c’era nient’altro, nemmeno io che la guardavo passare, poiché ero morto, chiuso al suo interno.
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