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La nostra lingua

Parliamo, noi italiani, la lingua più melodica, più elegante del mondo. Ovunque al mondo si possono trovare i nostri piatti, la nostra moda, le nostre auto di lusso. Gli strascichi di ciò che un tempo fu la creazione italiana sono disseminati ovunque al mondo, così come in Europa sono ovunque disseminate le vestigia e i ruderi della civiltà di Roma. Ma ciò che ancora vive e brilla a dispetto di tutti, italiani inclusi, è la nostra lingua, una delle meno parlate al mondo, la quarta più studiata al mondo, non tanto per via della cucina e della moda, quanto soprattutto per l’intrinseca bellezza delle sue molteplici sonorità.
Ciò che mi manca qui a Samui, massimamente, è la nobiltà di questa lingua. L’italiano colto che si parla a Napoli, l’italiano mordace di Roma, l’italiano lucente di Palermo, l’italiano esplosivo di Siena, l’italiano arrogante di Milano, l’italiano barbaro e tagliente che si parla a Brescia.
Mi manca l’italiano, mi manca l’Italiano fiero di esserlo, fiero delle sue origini multietniche, fiero del suo sangue misto, fiero di un patrimonio culturale vasto di secoli, l’italiano capace di pensare, capace di creare, capace di innalzarsi dal nulla, capace di comprendere che ignoranti si nasce tutti quanti mentre restare tali è una scelta, e se l’Italia oggi annovera non solo le persone più intelligenti del mondo – i siciliani, a sentire le scienze umanistiche -, ma annovera anche, come annovera, la demenza imposta di poter scegliere, con il proprio voto, tra gli idioti, gli scimuniti e i belelò, oh mamma mia, meglio tacere.

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