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Maschi maiali

Maschi maiali

[…]

E come è andata?

Al telefono mi hanno dato del tu per la prima volta, riconoscimento implicito del mio essere scrittore. Poi mi hanno gratificato con una bella allisciata, dicendo che la mia scrittura si colloca tra la prosa alta, d’autore, e la narrativa di intrattenimento intelligente. La tua scrittura è avvincente, è viva, qua e là scoppiettante, hanno detto.

Marley deglutì. La mousse gli andò di traverso e prese a tossicchiare.

Dissi Alla fine non se n’è fatto niente. Hanno detto che anche a prescindere dalla crisi che va di male in peggio, loro sono editori generalisti mentre io non appartengo a nessun genere letterario. Se è per quello, non appartengo e basta.

Marley bevve un sorso d’acqua, poi mi guardò visibilmente confortato dal mio insuccesso.

Sadici incorreggibili, sorrise. Come si intitola?

Madam, tutt’un’altra storia.

Di cosa parla?

Di noialtri.

Noialtri chi?

Noi farang, qui, a Samui. Noi e i thai, noi e le thai. È il primo romanzo di una trilogia.

Progetto ambizioso, spostò lo sguardo e deglutì di nuovo, senza però tossire questa volta. Si intitola?

Trilogia Siamese. Tutti i romanzi sono ambientati qui. Adesso sono alle prese con il secondo.

E come va? Nella voce c’era qualcosa di più che un’ombra di trepidazione, e i suoi lineamenti si aggrumarono attorno al naso, come risucchiati dal centro della faccia.

Dissi Come qualcosa che non parte, vidi i suoi lineamenti distendersi.

Si intitola?

Lady Baby Love.

Se vuoi gli do un’occhiata. Cosa facevi prima di scrivere?

L’avvocato.

Una precondizione comune a molti scrittori. Che genere di avvocato?

Fallimentarista.

Ti piaceva la gente in rovina.

Mi piacevano i soldi.

Non ti piacciono più?

Ne ho fatti abbastanza. Adesso mi piace godermeli. Ho sofferto anche troppo.

Per interposta persona, ho sofferto la stessa sofferenza. Mio padre era laureato in legge.

Avvocato anche lui?

No, Diplomatico. Prima console, poi ambasciatore. Gli occhi di Marley emisero un lampo.

Di che nazionalità? chiesi.

Era italiano.

Tu, invece.

Doppia nazionalità. Colombiano e italiano. Bilingue, poliglotta, accademico e alcolizzato, ora in recupero in Alcolisti Anonimi. Quando hai iniziato a scrivere?

Quando ho imparato a leggere. No, prima. Scrivevo storie nella mia testa.

Capisco. Annuì con fare professionale. Leccò il suo cucchiaino su ambo i lati.

Disse Quello che dovrà arrivare arriverà, il processo di creazione non segue regole precise e richiede tempo, di norma molto tempo. E dolore. Sono cose che dovresti sapere. La Yourcenar racconta di come durante la gestazione delle Memorie di Adriano avesse girovagato per giorni e giorni a caccia di ispirazione per i musei di Roma trascinandosi in lacrime tra i busti degli imperatori, in preda alla disperazione dello scrittore che non scrive. Tu non hai l’aria disperata. Che altro fai qui a Samui?

Niente. Trombo.

Trombare, che verbo meraviglioso. Stette lì per un istante o due con il dito sulle labbra, forse indeciso se leccarlo o meno. Poi disse In principio era il verbo, e prima del verbo era il sostantivo, e il sostantivo aveva nome Figa.

Di lì a poco la situazione precipitò. Lo scrittore e l’accademico morirono, e si era nel primo pomeriggio dell’equinozio di primavera. Sì, i due letterati schiattarono, e due verri maturi vivi a vitali come tafani infernali li sostituirono a quel tavolo sotto un chiosco del Radiance Restaturant del Samui Spa Resort di Lamai. Grugnivano e sbavavano e agitavano i loro zamponi latini mentre scendevano nel girone ribollente dei dettagli e delle specificazioni, e continuarono sempre così, impuri e fibrillanti, finché a furia di minuzie pornolaliche si eccitarono tanto da affrettarsi alle rispettive cavalcature con i cazzi arricciolati proprio come le code dei maiali che incarnavano. Rivedo ancora quella scena lussuriosa. Marley stringeva la sigaretta tra i denti e scalciava furiosamente sulla leva d’avviamento, eppure trovò lo slancio per recitare Lucrezio, un mero assaggio di versi dissoluti tratti dal De rerum natura. O quando il nostro animo, ossessionato, si rode / di passare la vita a non far niente e di finirla nei bordelli. Poi con il cazzo a vite senza fine, con la nerchia a cavatappi, ci precipitammo alle rispettive copule, uno di qua e uno di là, eppure spiritualmente vicini, coesi, solidali, fraterni, due Caini felici, devoti allo stesso culto, il solo autentico, vero e genuino, l’unico credo nei cui confronti ci si possa dire indefettibilmente devoti, il culto della carne, la religione condivisa che ci teneva entrambi risoluti a benedire e poi sturare bottiglie su bottiglie di liquori vaginali, in culo agli editor e agli editori, in culo alla letteratura comparata, in culo ai rientri da pena capitale, in culo all’alcol e alle ricadute, in culo ai fallimenti e ai legulei, in culo agli dei e agli Alcolisti Anonimi.

 

[…]

 

Quando, qualche ora dopo, Bebe se ne fu andata, ponderai che l’essere scrittore rende ingiustizia a chi frequenta i nostri dintorni artistici, a chi si avventura per i viali nevralgici della nostra sensibilità. Dei tre possibili finali suggeriti in Lady Baby Love ce n’è soltanto uno, forse, che si possa dire consono alla Bebe che conosco, la Bebe in carne e ossa, per quanto la conosco. Di norma si scrive per vendetta. Si scrive per rimediare al non sentirsi amati, corrisposti come si vorrebbe. Una verità lapalissiana, un truismo che non meriterebbe ulteriori indagini se non facesse parte di un più vasto paradigma. Gusto estetico e raffinatezze artistiche potranno anche distinguere un nobile scrittore da un macellaio sanguinario, ma i meccanismi psicologici maschili alla base della ricerca del piacere che caratterizzano entrambi li porta a essere, a letto, ugualmente maiali, e a elaborare, attraverso processi mentali pressoché identici, i medesimi pensieri, di norma poco veritieri e piuttosto triviali. Essere convinta, per esempio, la generalità degli uomini che trovarsi nei panni di una ragazza molto giovane desiderata per le grazie del suo corpo e per il faccino delizioso sia la condizione più auspicabile del mondo.

Finalmente vedevo che la ricerca di un irraggiungibile ideale di bellezza da parte di Bebe – cominciata con il naso allungato chirurgicamente e portata avanti con i seni gonfiati con il silicone – non aveva niente a che fare con il volersi rendere appetibile agli occhi dei clienti più di quanto già non lo fosse al naturale, mentre aveva tutto a che vedere con se stessa, con la fissità con cui amava contemplare la sua immagine allo specchio. Dopotutto, le sue lagnanze sui polpacci che giudicava eccessivamente sviluppati, e che ai miei occhi apparivano se mai troppo sottili, la rendevano una perfezionista stregata come milioni di altre, una martire tra le tante di una colossale truffa imbastita con specchi deformanti che ha fatto della bellezza non una qualità di cui godere collettivamente ma una cosa che bisogna possedere individualmente, possibilmente a discapito di tutte le altre.

Ora era chiaro. Bebe voleva che l’ammirassi per la sua intelligenza, che le aveva consentito di imparare l’inglese senza studiarlo e di sopravvivere e arricchirsi, diciottenne, lontana dalla famiglia per cinque anni filati in un ambiente sconosciuto e per certi aspetti ostile; voleva che amassi il suo cuore, che l’aveva spinta un’estate in cui aveva guadagnato una fortuna a donare parte dei suoi introiti agli orfani di Samui. Per godere della visione del suo corpo più o meno perfetto, Bebe bastava a se stessa. Al suo narcisismo bastava uno specchio.

Questa era la verità su Bebe. Ma non era ancora tutta la verità, perché se poi, come a volte capitava, ero molto lungo a venire o addirittura non eiaculavo affatto, lei mi rimproverava dicendo che non era carino per una lady non riuscire a far felice un uomo. E non serviva dirle e ribadirle che mi aveva fatto felice, felicissimo, dirle che lei aveva vent’anni e già questo, di per sé, era per me che ne avevo quasi sessanta motivo di grandissima felicità, e che doveva considerare che scopavo tutti i giorni, e perciò era normale, qualche volta, non raggiungere il culmine dell’orgasmo, o meglio, averne uno retrogrado, perché in realtà, le spiegavo, ero venuto, sì, ma dentro di me anziché fuori, e le mie contrazioni, la sua mano, doveva pur averle sentite. Spiegazioni inutili. Bebe diceva stizzita che se non avevo l’acqua (così lo chiamava lei, lo sperma) voleva dire che non era bella abbastanza. Perciò, se è vero che al narcisismo per così dire privato di Bebe bastava uno specchio, al suo narcisismo professionale era necessaria la prova provata, la conferma assoluta da parte dell’uomo, o meglio, da parte di tutti gli uomini che frequentava.

 

 

Brani tratti da Miss Thaimatic, terzo romanzo della mia Trilogia Siamese.

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