Il camion non apparteneva a Yonk – lui era soltanto il conducente. Quando Luughita aveva il giorno libero, oppure certe sere in cui non era troppo stanca, la portava con sé. E bisognava vederli come correvano avanti e indietro per le provinciali dell’Uthai Thani con i finestrini aperti – un giocattolone azzurro con due bambini dentro. Quando si era di luna nuova, lui diceva Salta dietro e conta le stelle. Poi dimmi quante sono. Lei sgusciava dal finestrino e sgattaiolava lungo la sponda del camion lanciato a tavoletta. Poi si lasciava scivolare nel cassone e si metteva in piedi. Afferrava la barra dietro la cabina e alzava gli occhi al cielo bilanciandosi sulle gambe, come un pescatore in equilibrio sulla barca. Il cielo vorticava, e schegge di luce precipitate dalle stelle le rimbalzavano sui denti. Se Luughita avesse avuto mille, un milione di volte il talento del suo vecchio avrebbe dipinto Notte stellata, poiché era proprio quello che vedeva. Bussava nel vetro posteriore della cabina.
Yonk, Yonk, gridava. Rallenta, altrimenti non riesco a contarle.
Il ragazzo accelerava e lei rideva. E se Donna Belonga li avesse visti di persona o fosse venuto altrimenti a conoscenza dei fatti che li riguardavano, lui avrebbe detto che quei ragazzini sdolcinati non erano che lo strascico dell’imminente decomposizione di chi li aveva procreati. E disegnando nell’aria spirali e arabeschi con le sue dita ossute, avrebbe argomentato che giocando il gioco dell’amore essi ricusavano l’inevitabile annientamento dei loro corpi, la cui vita, come la vita di tutti, non è che un rigurgito tra nulla e nulla, un mero barbaglio tra i bastioni delle tenebre. E mostrando i suoi denti rossi, avrebbe congetturato che il legame che li unisce è una trappola cui gli uomini e le donne non resistono, e che il demone che possiede Luughita e possiede Yonk e tutti gli altri come loro e come voi persuade loro e persuade voi a chiamare amore l’ecatombe della libertà – il naufragio della vita stessa.
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