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The big nothing

The big nothing
  1. The big nothing

 

Giorni fa mi scrive – o sono io a scrivere a – una ragazza thai dai capelli rosa e la pelle bianca, nell’insieme sottile e bella e seducente come un raggio di luce sull’acqua, titolare di un bar in rotta di bancarotta per via della sua ignavia nonché del Covid, proprietaria di un husky di nome Bella che sopravvive boccheggiando eternamente a letto insieme a lei, che, per inciso, si chiama Boh Bella.

Ciao, come stai?

Bene. E tu?

Bene.

Cosa stai facendo.

Niente. E tu?

Niente.

Fine del dialogo.

Il giorno dopo Giulio Lupo, in piedi sul lettino prendisole, guarda il jack russel di sua nonna disteso al sole rantolare sul prato. Dice È molto vecchio.

Silenzio.

Morirà? chiede il piccolo.

Nonna annuisce con gravità.

Oggi?

Oggi no, penso di no, dice nonna.

Però morirà.

Sì certo, Tibet morirà, prima o poi muoiono tutti.

Vedo il faccino del piccolo accartocciarsi come una prugna secca.

Tutte le creature, nascono, crescono e poi se ne vanno, dico.

Dove vanno?

Non so.

Muoiono? dice il piccolo.

Sì.

Anch’io? dice il piccolo.

Silenzio. Cerco percorsi alternativi, una mediazione plausibile, un arbitrato che stia in piedi tra una verità e un’altra verità. Non voglio edulcorare la pillola, ma evitare di opprimere il piccolo, questo sì. L’angoscia della morte mi perseguita da quando avevo la sua età. Vorrei risparmiargli lo stesso travaglio.

Anch’io morirò, torna a dire.

Anche tu, dice nonna senza emozione.

Cazzo, Paola, dico io.

Io non voglio morire, non voglio morire, non voglio morire, prende a gridare il piccolo mettendosi a saltare a piè pari sul prendisole, e non c’è modo di ricondurlo alla ragione, anche perché ha ragione, dopotutto. Chi vorrebbe morire a tre anni?

Non voglio morire, non voglio morire.

Sai che gli aerei galleggiano, dico con lo sguardo al cielo.

Nel lago? dice lui smettendo di gridare, smettendo di saltare, esibendo sulla fronte un punto interrogativo interessato. Mi dà le spalle e con un dito punta la baia. Galleggiano nel lago? torce la testa verso di me.

Sull’aria. Volare è galleggiare in cielo, è galleggiare in forma più sottile, ci hai mai pensato? Hai mai pensato alla portanza delle ali?

Portanza?

Il mattino dopo mi sveglio un po’ angosciato, è estate come ieri, il sole brilla come ieri, il lago è blu come ieri, la natura è verde come ieri, ogni cosa è viva, vivida, a suo modo vividissima, e io mi sento angosciato. Complici la canicola, la bassa pressione atmosferica che caratterizza il basso lago e la bassa pressione sanguigna che condiziona la mia bassa energia. Il capobanda, il mio male strutturale, il porco innominabile, è lì che mi guarda dall’alto in basso. Sposto gli occhi sulla superficie delle cose di cucina, le carezzo con la vista ma non le vedo. E le cose non vedono me. Persino il cucchiaio di legno distoglie lo sguardo. Finisco di bere il mio caffè e mi porto in soggiorno strascicando le infradito. Ho la pancia gonfia come Pablo Escobar e l’autostima sotto i piedi. Guarda che pancia, troppi formaggi in questi giorni arroventati… almeno fossi un narco!

Trovo il Lupo accovacciato ai piedi del divano, intento a far volare una minuscola moto. Accompagna il suo lavoro con gorgheggi motoristici. È nudo, come sempre d’estate. Ha i capelli arruffati e se per indicarne il colore dovessi ricorrere alla trita metafora del grano maturo sarei banale ma sarei sincero. Un raggio di sole gli attraversa diagonalmente un ciuffo scompigliato sulla sommità della testa e a quasi trecentomila chilometri al secondo colpisce le pupille velate di Tibet, accoccolato sul tappeto. Il cane strizza gli occhi. Poi si lecca sotto il moncone della coda.

Dico Giulio Lupo, secondo te, perché viviamo? (se fossi un narco non porrei domande come questa nemmeno a me stesso – hai sbagliato tutto nella vita, dice il porco innominabile.)

Perché viviamo, Lupo?

Perché mangiamo, altrimenti moriremmo, eh, torce un po’ la bocca e torce anche la testa, poi abbassa la mano impegnata con la moto e compie una mezza rotazione con l’altra come a certificare con l’eloquenza del gesto la logicità della sua risposta.

Ok, ok… però intendevo dire, perché siamo vivi, incarnati in forma umana, su questo pianeta e non altrove?

Non rompere che ho da fare, e riporta in volo la sua moto priva di ali e di portanza.

Una cosa è chiara: il pragmatismo di stampo narco che tanto ambisco è una dote naturale sua, non mia, beato lui. Far volare una moto o essere impegnati in una sparatoria sono occupazioni serie, non c’è spazio per i tormenti esistenziali di chi non fa niente.

Ma, a pensarci bene, anche non far niente è far qualcosa, è vivere. Quando Boh Bella dice che non sta facendo niente, mente. In realtà, vive, pensa. Al bar che precipita. Ai clienti che non arrivano. A sua figlia di nove anni affidata ai nonni a mille chilometri di distanza, su, nel Nord-Est della Thailandia. Al Buddha che non la assiste. A quali numeri giocare alla lotteria (confidando che alla prossima estrazione il Buddha si degnerà di assisterla). Al suo compleanno, ventisette anni tra un mese. Al fatto che è vecchia, ormai. A farsi una doccia. A non farsela. A cosa mangiare. A cosa dare da mangiare a Bella, l’husky. A trovare le parole migliori per spillarmi quattro soldi. A quella che potrebbe essere la mia risposta. A inviarmi, in caso di diniego, un emoticon animato con una figurina scabra che cade a terra morta stecchita ai piedi di una nera nube lampeggiante – ideogramma semovente del suo tragico destino. A tingersi i capelli di verde, per prima cosa, qualora le inviassi cento euro, che del rosa è stufa marcia. Trenta per la tinta, trenta da inviare ai genitori per Bella (sua figlia si chiama in parte come lei e in toto come il cane), dieci euro per mangiare, trenta per ubriacarsi con le amiche, darsi alla pazza gioia disperata, non pensare al bar che sta fallendo e ai clienti che non arrivano – solo per via del Covid, pensa lei.

Io stesso, quando dico che non sto facendo niente, mento. In realtà, vivo. E penso. A mio nipote e a mia figlia sua madre, a come saranno quando io non sarò più, al fatto che mi oblieranno com’è nella natura delle cose, e che i miei libri finiranno dimenticati in qualche soffitta o scantinato e non mi salveranno dall’oblio, alla loro vita negli anni a venire, alla misura della loro infelicità e alla misura della loro felicità che, illudendomi, mi figuro smisurata. Ai miei denti che non si aggiustano malgrado le cure. Alla vecchiaia. Alla morte, a quale sarà la morte di cui mi toccherà morire, se sarà d’un botto o lenta e tormentosa. Al fatto che vorrei vederli ora, subito, mia figlia e il figlio di mia figlia e che vorrei vivere abbracciato a loro per tutta la vita che mi resta. E allora penso di scriverlo questo abbraccio sempiterno. Sì, riprendere a scrivere, ecco quello che penso. Come minimo, ricominciare a disegnare. Invece me ne sto qui privo di energia come un vecchio straccio melanconico dimenticato sul letto a chattare con Boh Bella, a sentirla dire che non sta facendo niente, a dirle di rimando che non sto facendo niente, quando invece entrambi siamo occupati a pensare, ciascuno ai fatti suoi.

A questo punto potrei alzarmi, raggiungere lo studio, darmi da fare. Ma per scrivere e disegnare ci vuole ispirazione, e l’ispirazione non viene a comando, e tutti questi pensieri la ostacolano, invischiano i meccanismi della testa come melassa iniettata nel cervello.

E poi le idee migliori arrivano sempre quando non si pensa alle idee migliori, di solito si accendono spontaneamente come lampi a ciel sereno quando si pensa a altro o non si pensa affatto. Quando si è distesi, rilassati. Allegri. Ridanciani. In estasi. Oppure orribilmente tristi. Tetri. Sempre che non si sia pensatori professionali. Filosofi.

Se si è filosofi, pensare ai massimi sistemi va bene. Se ti pagano per filosofare, meglio ancora. Si tratta solo di percorrere caparbiamente sentieri logici, razionali. Non c’è arte nella filosofia, solo logica e razionalità e metodo, imperativi e teodicee, congruenze e antinomie. Filosofare: un’operazione matematica a base di parole anziché di cifre. Gli scrittori veri – i narratori del mondo, dell’io proprio e degli io altrui – sono per loro natura anche un po’ filosofi; i filosofi, invece, per loro natura, non narrano niente, non sono scrittori. Eccetto Nietzsche. Nietzsche, cavallo pazzo morto pazzo dopo aver baciato in bocca un cavallo seviziato a frustate dal sadismo del suo cocchiere.

Ogni volta che mi accosto allo Zaratustra resto abbagliato. Pensiero elevato a livello artistico. Epico e abbacinante come Omero. Nietzsche, dio di luce con la testa in ombra. Da non credere a i propri occhi! Più che vederlo intento a percorrere i sentieri della logica, lo vedo galoppare psichedelicamente per le praterie della creazione, sculettare voluttuosamente tra le vette della lirica. Racconta cose, lui. Fa filosofia divina e nello stesso tempo intesse storie poeticissime di vicende umane troppo umane. Un dio convinto che dio fosse morto. Il colmo.

Ma se non si è filosofi e non si è Nietzsche, se si è semplici narratori e non si ha niente da narrare, è meglio lasciar perdere le metafisiche sul senso della vita e concentrarsi sui piccoli temi quotidiani che annichiliscono me, te, e financo la massaia. Lista della spesa. Conti. Tagliando. Tasse. IMU. Bolli. Burocrazie intricate. Rogne varie. Amenità più o meno distrattive. Tagliarsi o non tagliarsi i capelli. Costumino nuovo che è estate. Canottierina in tinta. Anche partecipare a una sparatoria tra narcos rivali andrebbe bene, ma in tal caso bisognerebbe essere armati fino ai denti e aver imboscato sotto il letto un miliardo di dollari e dieci tonnellate di cocaina purissima. Diversamente, è meglio far volare una motocicletta sopra la testa emettendo gorgheggi motoristici. O strizzare gli occhi quando il sole abbaglia, quindi leccarsi voluttuosamente sotto al mozzicone della coda. Meglio essere bambini. O cani. E ancora. Giardinaggio. Orto. Uncinetto (da bambino me la cavavo nel punto croce, potrei riprendere). Cucinare. Scrivere, disegnare, dipingere, far musica, scolpire. L’arte appartiene ai bambini, quale che sia la loro età anagrafica. Picasso dice che a dodici anni (o a quattro – le versioni sono discordanti) dipingeva come Raffaello e di aver impiegato tutta la vita per imparare a dipingere come un bambino. Gli adulti, invece, si arrabattano buttandosi nel lavoro che tra le altre cose serve loro per mangiare. E a sentirsi – sempre che svolgano un’attività che li aggrada – un po’ meno frustrati quando si interrogano sul senso della vita.

Boh Bella e io, invece, niente. Niente di niente, né lavoro né arte. Ci limitiamo a starcene a letto, ciascuno il suo, a diecimila chilometri di distanza, lei sperando in un miracolo che salvi il suo bar e la sua vita, io aspettando un miracolo che mi porti ispirazione, o un miracolo che mi faccia vendere qualche copia dei libri pubblicati – soddisfazioni, dopotutto.

Se c’è un senso di giustizia universale, a mio modo di vedere, la più meritevole di miracoli, tra i due, è Boh Bella. Perciò mentre scrivo queste righe evidentemente frutto di una qualche ispirazione, mi auguro che la Sorte assecondi il suo sogno di vincere una somma astronomica alla lotteria senza far niente, nemmeno giocarsi i numeri, solo pensarli.

Sia come sia, a mio modo di vedere non c’è niente di problematico nel non far niente. Al contrario, in linea generale se c’è qualcosa che non è affatto problematico è proprio il niente, il nulla, grande o piccolo che sia. Una nave che non esiste non affonda, così pure una causa legale non crea problemi se nessuno l’ha intentata. Per quanto si guardi e si riguardi, non si scorge niente di aleatorio o preoccupante in ciò che non è. Il problema comincia quando non lo accetti il nulla che aleggia dentro e fuori di te, quando lo combatti il tuo nulla primordiale. Succede allora che in un moto di stizza quasi metafisica, quel tuo nulla – che in origine, appunto, non era nulla – si gonfia come un sufflè spropositato, ti avvolge come un materasso e dopo un po’ ti soffoca. Sicché, alla fine, un problema che era soltanto immaginario è divenuto reale, e a guardar bene, il problema, ora fattosi concreto come una pustola, sta tutto lì, nel come lo combatti, nel come cerchi di riempirlo, il Grande Nulla. Cibo, sesso, gioco, lavoro, famiglia, shopping, alcol, droghe, parrucchiere, arte: chi più ne ha più ne metta: l’importante è rimpinzarlo, questo vuoto!

Fosse per me e per quelli come me, il tema universale della noia che partorisce il nulla e il suo senso senza senso non si porrebbe, non esisterebbe. Ho la manualità di un impedito, so costruire (male) solo con il Lego, per conto mio vivremmo ancora in grotte fredde e umide e buie, con gli orsi ostilmente condivise. Umani come mezze bestie primigenie che per sopravvivere necessitano di ben altre capacità che non quella di innalzare grattacieli alti chilometri per poi, a lavoro finito, annoiarsi mortalmente e buttarsi di sotto come in effetti fece l’ingegner Eifell lanciandosi dalla sua torre non appena l’ebbe ultimata (la notizia è falsa: Eifell morì anni dopo stroncato da un ictus, ma la noia è vera, vera e diffusa come la depressione che nei soggetti complicati esautorati dalle loro complicazioni la segue a ruota. Da che la torre è sta costruita si calcola che siano circa quattrocento le persone che ne hanno tratto giovamento tuffandosi di sotto. La stampa parla creativamente di Turismo dei suicidi.).

Fosse per quelli come me, saremmo cavernicoli, raccoglitori e cacciatori perennemente in movimento, nudi come Giulio Lupo d’estate o mezzo nudi come si vive a Ko Samui in tutte le stagioni, impregnati di sangue e nomadismo, specializzati nella corsa a perdifiato. Correre correre correre, altro che trascinarsi tra gli scaffali del supermercato! Correre! Correre per i frutti da spiccare prima che marciscano, correre all’inseguimento delle bestie da ammazzare prima che spariscano. Armi poche. Pietre, aste, un pugno di fionde, qualche lama di selce. Noia assente. Pensieri pochi. Stomaco da riempire, freddo da combattere, belve da respingere, fuochi da accendere, mangiare, dormire, copulare, riprodursi, correre correre correre, morire. Fosse per quelli come me, la noia non avrebbe cittadinanza a questo mondo, non avrebbe giurisdizione su questa specie sedentaria.

Fosse per me saremmo rimasti all’età della pietra anziché naufragare nell’era della plastica e del Lego. Fosse per quelli come me, l’unico sentimento religioso praticato sarebbe quello dell’unione con la natura che fa la forza della specie. Religioni e spiritualità sono lussi per chi mangia troppo, si muove poco e si pone domande idiote generate dalla noia. Perché esistiamo? Mollami che ho da fare, disse Giulio Lupo, e io restai di stucco perché aveva ragione. Saggezza cui attingere. Primitivismo dei bambini. E io adulto, muto.

La mamma non muore, vero?

Le mie dita percorrono come un branco di animali indipendenti le vertebre cervicali del piccolo coricato sul divano su cui siedo di traverso all’altezza dei suoi piedi. Mi dà le spalle, il viso accostato allo schienale. Sporgo il busto e lo guardo. Occhi aperti. Occhi chiusi, poi di nuovo aperti nella semi oscurità del soggiorno.

La mamma non muore, vero nonno?

Mamma è in cucina che fuma la sua sigaretta serale, l’unica quotidianamente concessa dalla sua persona all’insegnante di yoga che è. Nessuno è in grado di far addormentare il Lupo, se non la fumatrice consapevole e l’uomo che dorme con lei. Ci hanno provato in tanti, zii, nonne, nonni. Ma lui, niente. Irremovibile nella veglia come un cavaliere medievale, scalcia e non cede alle lusinghe del sonno. Scalcia anche adesso, scatti mioclonici del puledro venuto alla luce da un minuto. Goffi tentativi di coordinamento muscolare. Sforzi parossistici per sfuggire al nulla di chi dorme. Crolla ma non si abbandona: mamma potrebbe morire proprio adesso, come fidarsi? Le mie dita percorrono il primo tratto di colonna, si fermano e si aprono a raggiera. Ora la mia mano aperta è un ponte stellare che collega le sue scapole, caldo-umide e cartilaginee.

La mamma non muore, vero?

Lo senti il sole sulla schiena?

È la tua mano?

È il sole. Lo sai o non lo sai che sono il Mago Magro?

Sei un Mago?

Ora conto fino a tre e tu dormi.

No.

Uno.

No.

Due.

No.

Tre.

Dorme.

Il buonsenso è ciò che manca alla burocrazia in senso lato, intendendosi per tale qualsivoglia disciplina con modalità d’approccio alla vita prettamente scientifiche. Il buonsenso della scienza avrebbe somministrato al piccolo un blando sonnifero. Anche una passatina sul gas sarebbe andata bene, a sentire la massaia con velleità ipnogene. Il buonsenso profondo, artistico, invece, è fatto di creazione, penetrazione, immedesimazione, empatia: dati e numeri e dosaggi lasciati fuori, relegati nei circuiti delle macchine e di chi vive come le macchine, fermo restando che – conciati come siamo da quando abbiamo smesso di cacciare bestie feroci e morire eroicamente divorati a quindici anni o dignitosamente di vecchiaia a trenta o quarant’anni – di tanto in tanto un bell’Aulin è un toccasana per i dolori articolari e una cura antibiotica può salvarci la vita.

Al tema della morte sul quale ho tanto a lungo indagato e nel cui mare sono così spesso naufragato resto eternamente debitore. L’esperienza intellettuale e emozionale (per forza di cose non esistenziale, non ancora) che ho tratto dai miei travagli tanatofobici mi ha reso una creatura capace di una qualche forma di soccorso scevra di gas e di benzodiazepine, di metano e metadone. Io sono colui che vive ora in Giulio Lupo ciò che ho vissuto e rivissuto quando soffrivo della medesima insonnia infantile. Ma anziché chiudere il piccolo sottochiave in una stanza buia fino a farlo crollare per sfinimento nel buio del sonno, anziché allontanarmi per non sentire le sue urla, ho partecipato alla sua angoscia, l’ho condivisa ora per allora. Il Lupo, tutto questo, l’ha sentito, e ora dorme tranquillo. Tutto qui.

La magia ha a che vedere con le sottili emanazioni naturali che di norma la medicina ignora e che lo sciamano serio pratica in silenzio, senza vanità e sbandieramenti. D’altro canto il medico e la massaia dai modi spicci non hanno tutto quel tempo da investire nell’amore per i pazienti e per i pargoli. Anzi, se non vado errato, i paradigmi deontologici della medicina postulano il distacco emozionale dagli affanni del paziente, e un protocollo analogo era alla base dell’educazione alla maternità che si impartiva alle puerpere del secolo scorso: i bambini alla bambinaia. Vero è che la medicina, pur nel suo algore, ha il merito di averci allungato la vita (più che la vita, ci ha allungato la vecchiaia). Ma è altrettanto vero che la magia, come l’amore, è la chiglia della creazione.

Mi porto in cucina. In tono neutro comunico la novella: Il Lupo dorme. La notizia fa sgranare gli occhi a sua madre, intenta a esalare il fumo dell’ultima boccata, e ha ancora gli occhi increduli, sempre fissi su suo padre il Mago Magro, quando strizza a fisarmonica la sigaretta nel posacenere azzurrato.

La pazza gioia disperata che ha seguito la liberazione dal lock down, le strade intasate dai vacanzieri imbizzarriti dopo la clausura e anche durante, le spiagge invase da bagnanti bagnati di sudore infetto, i covid-party con giochi a premi dove si invitano persone sintomatiche e dove vince chi per primo si contagia, la peste bubbonica ricomparsa in Mongolia per aver pasteggiato a carpaccio di marmotta, il grande niente. Tutto è concesso ora che siamo liberi dal confinamento. No, non tutto. Per esempio quei due ragazzi, imponente e mascelluto lui; lei un animale da sesso in short, cosce carnose e succulente come un paio di piante carnivore d’alto fusto, quei due, che avranno lasciato il letto sì e no mezzora fa, che si saranno svoltolati come pitoni infoiati, penetrati con la lingua e il resto in tantriche posture… a quei due, in questo bar all’aperto, tre tornanti sopra il nono, è vietato stare seduti l’una in braccio all’altro, il cameriere glielo dice forte e chiaro, Non si può, non si può, e se non intervengo di persona per sottolineare tanta assurdità è perché sono troppo stanco di combattere le mille teste del mostro burocratico. Lo stesso vale per quell’altra coppia, questa centenaria, che sta giocando a carte. Saliti in Maddalena per rinfrescarsi, per sfuggire l’inedia arroventata della città morente. Non si può, non si può, li redarguisce parimenti il cameriere. Ma come, le carte ce le siamo portati da casa, sono le nostre. Mi spiace, non si può. Terrore del contagio, anche là dove il contagio, se doveva propagarsi, è già, per forza di cose, avvenuto e stra-avvenuto. Terrore del contagio. Più ancora, terrore della ferrea applicazione della legge. Norma violata, bar chiuso a oltranza. Si sa, la burocrazia è cieca. E armata. Spara dove capita. Peggio dei narcos. Il cameriere si porta al mio tavolo, un ragazzino ossuto, provvisto di una testa dinoccolante. O di un collo di gomma americana, non si capisce bene. Quale legge starò violando? Forse non si può stare al tavolo all’aperto con il computer aperto.

È uno scrittore, lei?

Sì.

E cosa scrive?

Quello che vedo in questo momento.

Ah! dinoccola la testa in un moto di ammirazione. Poi si allontana e gira quel suo collo di caucciù e resta a fissarmi come fisserebbe la madonna.

Bravo ragazzo che non mi hai chiesto altro! Ti avrei detto che no, non sono famoso, al contrario, i miei libri si vendono poco. Un po’ come tutti i libri. Ma questo non mi solleva dalla frustrazione. Anzi. Perché se è quasi perdonabile non leggere Ranzanici, non lo è per niente non leggere Stevenson o Fante o Proust o Kafka o Nabokov o Nietzsche. O Lucrezio e Epicuro. O il Maugham di La luna e sei soldi. O Walt Whitman e Cormac McCarthy. O Jung. O Paracelso e Ermete Trismegisto. O Lao-tzu. Ecco come raddoppia l’amarezza: non leggere me e non leggere i giganti. È già tanto se, dopo aver guardato le figurine, le leggono davvero le tre righe che accompagnano i post di facebook. The big nothing.

Ma un altro Nothing, questo davvero Big, bussa alla mia porta.

“Il Tao di cui si può parlare non è l’eterno Tao,

il nome che si può pronunciare non è l’eterno nome.”

Sono queste le parole di apertura del Tao Te Ching di Lao-tzu, nella migliore traduzione in lingua italiana che conosca e che naturalmente era anche la più economica (Cinquemila lire che allora sembravano tante ma guardale adesso, due euro e mezzo, non ci compri neanche le sigarette, pacchetto da dieci. Eppure a questo prezzo potevi avere il Tao che non ha prezzo.).

“È l’oscuro,

oscurità nell’oscurità,

la porta di tutti i misteri”

prosegue Lao-Tzu, che questo libro forse nemmeno scrisse, forse fu opera di un discepolo, o forse ancora scrisse lui stesso incalzato dal Guardiano del Passo, che Lao stava valicando per andare a morire in un luogo appartato, solo come soli dignitosamente si piange, dopo una vita spesa a cercare di comunicare l’Incomunicabile senza aver coerentemente scritto nulla prima di allora.

“Senza nome è l’origine del cielo e della terra

con un nome è la Madre delle innumerevoli creature”

Eccolo il Tao, il Grande Nulla da cui promanano gli dei, gli umani, tutte le creature.

Vuoto quantistico? Materia Oscura? Energia Oscura? Tutto proviene davvero da lì, dal Tao comunque lo si chiami? Leggere Il Tao della fisica di Fritjof Capra può fornire le risposte o, più probabilmente, studiandolo, suscitare domande nuove.

“Il Tao di cui si può parlare non è l’eterno Tao.”

Del Tao non si può dire… e a me che in vita mia, tra le tante sciagure, è capitata anche quella di sentirmi dire ti amo.

Ti amo, e mai una volta che io abbia risposto coerentemente a un tale affronto: bugiarda!

Col senno di poi (con cui nemmeno ho iniziato a scavare la fossa), nella mia esistenza di partner, di compagno, di fidanzato (e di altre varianti di consimili orrori lessicali e di ruolo) ho realizzato che ti amo non significa – come dovrebbe – sii ciò che sei, ma: ti voglio possedere, devi diventare come dico io, devi vivere con me e darmi un figlio e darmelo pure alla svelta che invecchio, devi farmi felice, devi fare quello che dico io, devi appagare i miei bisogni, soddisfare i miei desideri. Anzi peggio: siccome io ti amo, se non ti lasci possedere, se non diventi come dico io, se non vivi con me e non mi dai un figlio dopodomani, se non mi fai felice, se ti rifiuti di fare quello che dico io, se non appaghi i miei bisogni e non soddisfi i miei desideri, allora sei colpevole, e siccome sei colpevole perché – malgrado il mio amore – non ti lasci possedere, non diventi come dico io, non vivi con me e non mi dai un figlio in fretta e furia (ti do tre minuti), se non mi fai felice, se ti rifiuti di fare quello che dico io, se non appaghi i miei bisogni e non soddisfi i miei desideri, allora non ti amo più, ti lascio, ma ti voglio ancora bene, molto bene.

La consolazione sta nell’aver un giorno di pioggia definitivamente rinunciato a cercare di comprendere la differenza semantica tutta italiana – per me, al pari degli anglosassoni, assolutamente incomprensibile – tra amare (to love) e voler bene, molto bene (to love).

Ti amo, e io zitto, con l’ego che scodinzolava contento, come mi avessero detto, che so, che ero bello quanto un eroe greco o che la mia vita era utile. O almeno finita.

Sì, lo ammetto, colpevole lo sono stato.

Ti amo, e io Narciso che rispondevo come la ninfa Eco: ti amo, ti amo anch’io.

Ah l’amore, l’amore! Di quale amore potremo mai fidarci, fidarci assolutamente, ciecamente, perennemente? L’amore dei figli? Ci sono figli che tradiscono i genitori e li gettano sul lastrico. L’amore dei fratelli? Alcuni sì, altri no. L’amore di un uomo o di una donna? Meglio non parlarne, ne ho già parlato troppo. L’amore di un padre o di una madre? Ci sono padri che stuprano le figlie e madri che le vendono ai maniaci prima ancora che alle piccole siano sbocciati i seni. L’amore degli dei? Troppo incostante, legato com’è agli umori alterni del sistema nervoso e alle bizzarrie della Sorte. L’amore degli amici? Evanescente anch’esso, dura finché dura.

Certo, a questa prospettiva si contrappongono innumerevoli eccezioni. Genitori che adorano i figli e viceversa. Coppie che durano per la vita. Amicizie indissolubili, Eurialo e Niso, e via dicendo. Ma il punto è un altro, il punto, qui, è riuscire a trovare la regola priva di eccezioni. Il punto è scoprire se esista o non esista una forma d’amore assoluto, costante, universale – l’amore sempre desiderato che ci possa accompagnare, se non proprio dalla culla, almeno fino alla tomba, l’amore di cui potremo fidarci sempre, finché vivremo.

La risposta è sì: l’amore per sé stessi: a meno che si sia inclini al suicidio o irrimediabilmente auto distruttivi, non c’è altro amore duraturo, inestinguibile, eterno, al di fuori dell’amore per sé stessi. Persino l’amore della madre più amorevole, quando la madre muore, si trasforma nel cuore del figlio tanto amato in tradimento. E il ricordo dell’amore ricevuto, anziché dolcezza, gli suscita stizza per averlo irreparabilmente perduto.

Eh sì, più ci rifletto e più mi sembra che le cose stiano così. D’altra parte, se stessero solo così, se l’amore si riducesse al gioco di uno specchio, a una partita a scacchi giocata in solitario, a una danza con un solo danzatore, tanto varrebbe risparmiaci le pene della vecchiaia e, per amore di noi stessi, ammazzarci quarantenni. Ma a salvarci dall’ignavia un altro amore si profila all’orizzonte. Questo amore arriva quando i petali del narciso sono caduti e giacciono a terra ormai appassiti, e i fiori e i frutti dell’autunno vengono offerti dalle ricche mani della natura: quando le viole del pensiero si aprono come farfalle purpuree, quando l’uva pende matura dalla vite, quando invecchiando, finalmente, riconosciamo l’altro. E non importa se Giulio Lupo al mio invito di giocare risponde Non ho tempo; non importa se il suo prosaico pragmatismo ammutolisce le mie speculazioni filosofiche; non importa se abbia o non abbia voglia di corrispondere il mio amore. Importa solo che in qualche modo io possa contribuire alla sua felicità, alle capriole, alla sua formazione, al suo sviluppo.

Tutti spariti nel Nulla stasera. Mia figlia in fondo al giardino a rastrellare al buio, mezza cieca com’è. Sua madre volatilizzata in una qualche dimensione di là del tessuto della realtà. Gli altri pure, ciascuno chiuso nel suo proprio spazio-tempo oltre quel tessuto misterioso in cui viviamo tutti, ognuno intento a claudicare a modo suo sulla linea della vita che gli compete.

Giulio Lupo giace coricato di pancia sul divano, io siedo al suo fianco e gli massaggio i piedi con tocco thailandese. Luci fioche attorno a noi. Di notte questa casa è un tempio. Grilli fuori. L’ora del sonno. L’ora del Lupo.

Dico Vado in giardino a far pipì. A te non scappa?

No.

Allora vado e torno.

E io resto qui… solo?

Puoi uscire anche tu, se vuoi.

Muoio di sonno.

Non posso far pipì sul tappeto, capisci? mi alzo.

Esco con te.

Guarderai le stelle, intanto. Mi segue, con la coda dell’occhio lo sbircio ciondolare di stanchezza come un micro sonnambulo ubriaco.

In fondo al giardino, quasi in riva al lago, intuisco la sagoma semovente di mia figlia, un’ombra nera che dondola nel nero della notte, e la notte dondola a sua volta sopra la baia in un luccichio simmetrico che fa pensare a Ermete Trismegisto. Cielo sopra, cielo sotto; stelle sopra, stelle sotto, cogli tutto e godi di tutto.

Giulio Lupo non ha visto sua madre: a naso insù punta l’insondabile come volesse odorarlo.

Quante sono?

Miliardi di miliardi. Vedi? quella non è una stella. Quella è Venere. La vedi?

Quale?

Quella più luminosa. Fammi finire e te la indico. Venere, in realtà, non è una stella ma un pianeta, come la Terra. A differenza delle stelle i pianeti non brillano di luce propria. Riflettono la luce della stella più vicina. Venere riflette la luce del Sole. Come la luna.

Il sole è una stella?

Sì. Una nana gialla.

Una nana?

Una stella nana. Significa che non è molto grande. Quante stelle vedi?

Tantissime.

Molte delle stelle che vedi non ci sono più.

Dove sono andate?

Da nessuna parte. Forse nel Tao, nel Grande Nulla. In ogni caso si sono spente.

Sono morte?

Sono implose o sono esplose. Le più grandi si sono trasformate in Supernove.

Supernove.

Dalle Supernove si origina la vita, la materia, gli elementi chimici che compongono ogni cosa, incluso te.

E te?

Anch’io. Siamo letteralmente figli delle stelle.

Anche la mamma?

Anche lei.

E le stelle che non ci sono più?

La luce ha una sua velocità. Ci mette del tempo a viaggiare nello spazio. Magari quella stella…

Quale?

Quella là. Magari si è spenta cento anni fa o un milione di anni fa, noi vediamo la luce che era partita prima che la stella si spegnesse.

Andiamo sul divano?

Ti racconto la storia di Ganesh.

Sì, ma non di quando Shiva gli ha tagliato la testa.

Vuoi sapere di quando ha costruito un aeroplano con le fronde di una palma per volare in vetta all’Everest alla ricerca del Mago Sigismondo, il Mago Rotondo, per portarlo a curare sua mamma, Parvati, perché, poveretta, soffriva di dolori articolari?

Sì.

Posso darti un bacio sulla guancia?

Sì.

Rientriamo.

Nonno?

Cosa.

Stiamo bene noi due soli, insieme.

 

San Felice del Benaco, 24 luglio 2020

Brano tratto da Il nono tornante – un’allegoria del traffico e dell’amore

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