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Yan dell’Illinois – seconda parte

Yan dell’Illinois – seconda parte

Yan si tirò su da terra e si trascinò alla moto con una mano premuta sulle reni e l’altra che massaggiava l’addome. Montò in sella in un gemito soffocato, avviò il motore e diede gas. Doveva parlare con Ciuda, questo equivoco andava chiarito. Chissà, forse aveva trasferito il denaro su un conto separato per questioni fiscali che lui non conosceva. E come avrebbe potuto? Che ne sapeva lui della legislazione thailandese? A mala pena sapeva che il codice civile thai deriva da quello tedesco… o era il codice penale?

Svoltò a sinistra e prese una scorciatoia nella giungla. Ciuda era uscita molto presto quel mattino, dicendogli che aveva da sbrigare certe faccende urgenti in negozio. Lui ora l’avrebbe raggiunta, l’avrebbe presa sottobraccio e condotta su un tatami, le avrebbe preso le mani tra le mani guardandola con partecipazione. Lei gli avrebbe spiegato il perché e il percome di quel movimento bancario, e lui, comprendendone finalmente la ragione, si sarebbe complimentato con lei in un sorriso di ammirazione. Ciuda, Ciuda, cosa non ti sei inventata per fregare il fisco…

Ma poi un dubbio si affacciò alla sua mente e si fece avanti perentorio come un ufficiale giudiziario dentro casa. Forse lei lo aveva semplicemente abbindolato, punto a capo. Forse Ciuda era come tutte le altre. Quelle voci che giravano sulle lady dei gogo bar… forse anche lei era una di quelle.

Doveva essere preparato, essere pronto a tutto, doveva farsi coraggio. Vide l’insegna e accostò. Più che di un bar si trattava di uno spiazzo di terra battuta affollato di gazebi di legno e canniccio con un banco riparato da una tettoia sghemba in mezzo e qualche striminzito albero di frangipani piantato qua e là. Prese posto in un gazebo poco discosto dal banco e fece segno alla barista. Quella si fece avanti claudicando, e l’anca sinistra sporgeva abnormemente dalla veste ogni volta che il peso del corpo ricadeva da quel lato. Yan ordinò un whisky, quella grugnì qualcosa, lui non intese cosa. Poco dopo la zoppa slombava di nuovo alla sua volta con un bicchiere di whisky e ghiaccio in mano. Yan estrasse il ghiaccio con due dita, lo buttò e bevve d’un sorso. Poi ordinò un altro whisky, ma questa volta senza ghiaccio, per favore, e a seguire un altro e un altro e un altro ancora. La storpia andava e veniva sul terreno accidentato dondolando come un’auto con una gomma a terra. Alla fine Yan si fece portare una bottiglia. La tracannò bevendo a collo, gli occhi fissi sull’immagine di Ciuda che ingombrava il cielo come una nuvola.

Un potere immenso scese benevolmente su di lui. Niente più spigoli, né dubbi o solitudini. Le vittorie erano trionfi e le sconfitte erano vie che conducevano a nuove vittorie, i nemici erano snidati e annientati, il futuro brillava vasto e promettente come l’oceano agli occhi degli esploratori, la morte gli era amica, la vita una promessa, e gli uccelli sugli alberi… non senti come cinguettano e zufolano apposta per me? Si sta bene qui, se solo ci fossi tu tra le mie braccia, stretta al collo… starò con te per tutta la vita, Ciuda, per tutta la vita sbronzo stretto a te. I preti, i malvagi, i moralisti dicono che bere è male, ma che male c’è, che male c’è? Ogni cosa è a portata, il mio fiato respira il mondo e lo riscalda, e i miei occhi lo abbracciano con sguardi d’amore… ogni cosa è qui con me e resta con me per sempre, le foglie nitidissime, e il caldo giallo come miele, e io vivo tutt’uno con il mondo, e il mondo è burro, e tutto è morbido, santo, tutto è sacro, e tutto è dentro di me che sono sacrosanto, e manchi solo tu.

Per saldare il conto gli mancavano duecentoventi bath. La storpia lo guardava sospettosa mentre lui metteva nervosamente mano alle tasche e si guardava in giro e scuoteva la testa e diceva cose americane a lei del tutto incomprensibili. Poi lo vide illuminarsi, sorridere come un ebete, e avviarsi alla moto barcollando. Lei brandì un randello e gli fu dietro minacciosa. Lui si girò, inciampò in una radice, non cadde, ridacchiò, alzò una mano come a dirle aspetta. Aprì la sella della moto e ravanò con la mano in un caos di capi d’abbigliamento scombinati, libri squinternati e cose intricate multiformi e vaghe. La zoppa gli era di presso con il fiato sul collo, e picchiettava ritmicamente il randello sulla palma. Alla fine la mano di Yan ricomparve, e stringeva tra le dita una banconota da mille bath, e la donna sorrise, amabilmente sorrideva la storpia a quelle dita.

Yan mise in moto, partì, si fermò, vomitò di lato, ripartì, si fermò di nuovo, vomitò conati sincopati, quasi jazzistici, prese la via di casa. Un lume in quella testa naufragata gli diceva che affrontare Ciuda in quelle condizioni non sarebbe stato salutare, no che non era salutare. Arrivò a casa, entrò, la trovò vuota, no, non vuota, svuotata. In sala era rimasto solo il divano, in cucina non c’erano più nemmeno i fornelli, anche il frigorifero era sparito; in camera da letto era rimasto solo il letto senza materasso. Aprì la sezione dell’armadio di Ciuda e ne uscì un’eco sinistra e muta, in bagno trovò il suo spazzolino da denti, solo quello. Si era presa tutto, anche il sapone liquido e il dentifricio, persino il suo rasoio e la schiuma da barba, e le pareti del bagno rimbombavano ovattate di silenzi cupi. Tornò in sala e vide che dal tavolino era sparito il computer portatile, la sua vita, tutta la sua vita addensata in forma digitale. Cadde in ginocchio lì dov’era senza trovare la forza di gridare o piangere o imprecare. Uomo in preghiera senza niente da impetrare. Uomo spezzato, uomo piegato impossibilitato a sparire. Restò così per alcuni minuti, muto e sgomento come il primo uomo apparso sulla terra in una notte senza stelle. Poi si lasciò cadere sul pavimento e si addormentò.

Si svegliò a notte fonda, corse in camera e accese la luce. Il lampadario d’ottone era ancora lì. Montò sul letto e svitò il braccio con la lampadina fulminata e lo tirò verso di sé per quanto glielo consentiva il filo. Infilò un dito nell’incavo, il rotolo delle banconote era ancora lì. Trentamila bath messi da parte per ogni evenienza. Sopravvivenza garantita per un paio di mesi, forse qualcosa di più stringendo la cinghia. Nel frattempo avrebbe affrontato Ciuda e sotto minaccia di denuncia lei gli avrebbe restituito i suoi soldi, tutti i suoi soldi fino all’ultimo centesimo. E già che c’era si sarebbe preso il negozio: auto, moto, tutto quanto. E la sua furia l’avrebbe annientata. L’ira di Achille. Prese il rotolo, rimontò il braccio del lampadario, si buttò sulla rete del letto con le banconote arrotolate strette in pugno, pianse un po’ e poi dormì di nuovo.

Sonno instabile, sprizzante sinapsi in frenesia, una bailamme di inquietudini, pensiero dominante Lei. Lo amava ancora. Per forza. Si era impossessata dei suoi averi solo perché ne aveva bisogno per sua madre e per suo padre e per il figlio dodicenne che viveva con loro, su nell’Isan. Aveva agito per necessità, ma una cosa era certa: lo amava ancora. Quanto era passato dall’ultimo sguardo, dall’ultimo bacio innamorato? Due giorni? Tre? Occhi profondi, lucidi e sinceri come specchi d’acqua nella notte. Che altro dicevano quegli occhi innamorati se non che lo amava? Un destino crudele, la povertà, no peggio, la miseria si era frapposta al loro amore per rovinare ogni cosa. Ma nella vita tutto si aggiusta, con il tempo tutto di aggiusta – mamma lo diceva.

Yan aprì gli occhi nel buio della stanza vuota e buia. Domani niente alcol, una bella colazione, qualche bracciata in piscina, camminata in spiaggia, e eccomi da lei sano e forte come Spartaco. O era Ben-Hur? Ti perdono, Ciuda. Ti perdono perché ti amo e ti capisco. Fossi stato al posto tuo, avrei fatto lo stesso. Sai cosa facciamo adesso? andiamo alla banca e sistemiamo ogni cosa, poi riportiamo i mobili a casa, dimentichiamo l’accaduto e ricominciamo da capo. Magari ci prendiamo una vacanza. Ti piacerebbe Phuket? O preferisci Chan Mai? No, no, no, sai che facciamo? Andiamo dai tuoi, così me li fai conoscere, conoscerò tuo figlio, si chiama Tan, giusto? Vedi che me lo ricordo ancora come si chiama, lo vedi quanto ti amo? Amerò anche lui, con il tempo amerò anche Tan – con il tempo si può amare chiunque, purché lo si voglia, parola di mamma.

Il mattino si portò al KFC del Big C e mangiò cosce di gallina fritta e mangiò anche qualche ala rinsecchita, e sgranocchiò noccioline dure come ossa e bevve un mezzo bricco di caffè americano. Poi tornò a casa, e si tuffò in piscina con l’idea di fare trenta vasche. A metà della quarta si issò fuori e si mise a sedere sul bordo con il fiato corto e le gambe in acqua, e guardava i piedi deformati dalla rifrazione della luce. Stette così a fissarsi i piedi svergolati per qualche minuto ancora, poi traversò la strada, raggiunse la spiaggia e camminò fino alla battigia e si bagnò di nuovo i piedi, e li sentiva elettrici, e nemmeno il mare li placava tanta era la frenesia di correre da Ciuda.

Telefonarle prima? No, non era una buona idea, un’idea già scartata fin da quando si era ritrovato culo a terra fuori della banca. Certe cose non si risolvono per telefono, vanno affrontate di persona – mamma lo diceva. Tornò a casa, entrò in bagno, sciacquò i piedi, si specchiò. Aveva la barba lunga e non aveva il rasoio per raderla. Anche quello si era presa. Ma lo amava. Si passò una mano sulle guance ruvide, irte di peli tutti ancora neri. Spartaco in persona. Come poteva non amarlo?

Trovò il negozio chiuso e il plateatico sgombro, le auto e le moto ancora all’interno. Si portò alla saracinesca e picchiettò con le nocche. Aspettò qualche secondo ma non ci fu risposta. Bussò di nuovo. Niente. Erano le dieci e mezza del mattino. Sedette sul marciapiede con la testa tra le mani e i gomiti sulle ginocchia. Stette così, meditabondo e vacuo come un erbivoro, troppo stanco per ripassare ancora una volta il copione delle cose da dire a Ciuda. E di quelle da non dirle, mentalmente già depennate un’infinità di volte. La tensione, quella girava solo nei piedi, corrente elettrica, formicolio che gli diceva qualcosa, ma non capiva cosa. Pensò che forse i piedi gli parlavano in thai, e ridacchiò tra sé e ridacchiava ancora quando sentì il rumore della serranda che veniva arrotolata. Saltò su, si voltò e vide le gambe nude e poi gli short di Ciuda e infine vide Ciuda tutta intera, bella e scarmigliata e nera come una dea pagana.

Ao arai? disse lei in thai. Cosa vuoi? aveva il labbro superiore arricciato, e sotto mostrava denti disgustati, e sopra occhi freddi come Satana.

Ciuda… la bocca di Yan franò in un sorriso sghimbescio.

Che cazzo vuoi, ripeté lei, in inglese.

Io… io…

Un giovane uscì fuori dal negozio e si portò alle spalle di Ciuda ma un po’ discosto. Yan lo guardò e continuò a guardarlo a bocca mezzo aperta e con occhi vaccini e vuoti. Indossava un paio di bermuda fiorati, nient’altro. Esibiva una muscolatura elastica, e aveva capelli lunghi e lisci e biondi come il sole, e si molleggiava sulle gambe come un pugile. Trasse di tasca un pacchetto di sigarette e ne portò una alla bocca ma non la accese.

E questo chi è? disse indicando Yan con il mento.

Nessuno, Lionel, disse lei.

Nessuno, ripeté Lionel. Gettò a Yan un’occhiata di sufficienza. Ti sei fatto infinocchiare mica male. Però ti devo ringraziare, amico… a chi non fa piacere ritrovarsi con la pappa pronta?

Yan fissava alternativamente i due con lo sguardo perso. Bovino al patibolo, cercava senza successo di processare tutto quel carico.

Lo so che mi ami ancora, disse.

Lionel arricciò il naso.

Chi io? disse.

No lei, precisò Yan.

Ciuda scoppiò a ridere. Una risata grassa e tagliente come un morso nella carne viva.

Ciuda, disse Yan, lacrime agli occhi.

Ciuda, ripeté Lionel tirando su dal naso.

Che vuoi, disse Ciuda guardando Yan come il demonio quando mette gli occhi su un neonato.

Il tuo amore.

Lionel si accese la sigaretta.

Ragazzi, che film, disse.

Se non torni con me, disse Yan.

Se non torno con te, cosa?

Yan si morse il labbro, ritirò le lacrime, si fece rosso in viso.

Io… io… io ti denuncio.

Wow, disse Lionel.

Ah sì, disse lei. Allora denunciami.

Yan ingurgitò lacrime di frustrazione.

Guarda che andrai in prigione.

Non credo proprio. In prigione ci vai tu. O hai dimenticato come hai avuto il visto?

A Yan si mozzò il fiato.

Disse Lionel: Non dirmi che l’hai comperato. Eh no, certe cose non si fanno, no no no, comperare il visto… no no no, la corruzione non sta bene, è contro la morale, e non smetteva di agitare l’indice in segno di diniego.

Disse Yan: Ciuda, ridammi il mio computer.

Altrimenti, fece lei.

Altrimenti niente. Te lo chiedo per favore, c’è la mia vita dentro.

Bella vita, disse lei. Lionel va a prendere il suo dannato computer, tanto non vale niente, proprio come la sua vita.

Lionel tornò con il portatile tra le mani e fece per lasciarlo cadere. Yan fece un saltello disarticolato. L’altro rise e poi glielo lanciò come un frisbee. Yan lo prese al volo e lo posò a terra. Ancora mezzo abbassato, mosse due passi alla volta di Lionel agitando i pugni al suo indirizzo. Quello si librò da terra e si produsse in una serie di piroette levitanti, come un ballerino, e sempre roteando svelto come un derviscio lanciava le gambe di qua e di là a altezza d’uomo e oltre, e vibrava anche pugni velocissimi in ogni direzione, e per ogni colpo assestato all’aria emetteva uno stridio acutissimo, da rapace. Yan fece dietrofront.

Ciuda disse Non farti più vedere!

Quello lì ti tradirà, e allora tornerai da me. Lo so che sotto sotto mi ami ancora. Yan montò in moto e si portò alla sua casa vuota, gelida come l’inferno che gli echeggiava in testa.

Mi ama ancora, non si peritò di dirmi dieci minuti dopo l’inizio della nostra prima lezione. Lei non se ne rende conto, ma mi ama ancora, disse. Lo disse guardandomi di sotto in su cercando il mio sguardo con occhi dilatati, mesti, supplichevoli, come se il mio assenso alla fandonia che si andava raccontando potesse renderla credibile. Se in due crediamo nella stessa frottola, quella frottola diventa quasi verità; se ci crediamo in centomila, abbiamo fondato una nuova religione o un nuovo partito politico. O creato una rock-star.

Ciuda non se ne rende conto, ma mi ama ancora, ripeté Yan quella sera, una brutta sera di monsone. I tuoni, adesso, rotolavano lontani, ma il vento sibilava ancora teso tra le fessure delle finestre, mentre la pioggia aveva cessato di martellare il tetto come grandine, e dalla strada risaliva lo sciabordio delle auto di passaggio che si fondeva con il fruscio del condizionatore acceso. La luce al neon tremolava vivida mentre sulla prima pagina del mio quaderno nuovo di zecca scrivevo sotto dettatura i comparativi e i superlativi irregolari della lingua inglese, e tremolava ancora quando a fine lezione scrissi in fondo alla stessa pagina le forme irregolari di alcuni tra i meno comuni verbi inglesi. Tra gli aggettivi scritti sopra e i tempi verbali scritti sotto si apriva un grande spazio bianco, che Yan aveva riempito con un torrente volatile di parole inglesi, molte delle quali a me incomprensibili, ma che, intellegibili o meno, inevitabilmente finivano per convergere tutte sull’unico oggetto di quel suo estenuante monologo: lei, Ciuda.

Ossessione d’amore spinta fino all’autodistruzione: tema affascinante da che mondo è mondo. Fu questa, credo, la ragione per cui quando la direttrice della scuola, una thai minuscola, sinuosa, naso largo e pelle gommosa e chiara, seduta a pian terreno con le gambe nude accavallate alla postazione di comando, mi chiese, dopo che Yan ebbe lasciato la scuola, come fosse andata la lezione, fu questa la ragione per cui risposi Bene, benissimo, ci vediamo giovedì.

Il caso Yan mi interessava: molti anni prima, benché non fossi stato finanziariamente turlupinato, mi ero ritrovato nelle sue stesse condizioni emozionali. Naturalmente non ero attratto dall’idea di approfondirne la gnoseologia di una fissazione a me già nota: mi si era spalancata, piuttosto, la possibilità di restituire al mondo il sostegno che molti anni prima avevo ricevuto da certi amici, soprattutto l’amore profusomi dall’interlocutore della telefonata di cui ho detto altrove, il quale, per darmi la forza di sopravvivere a me stesso, si era fatto in quattro e in altri quattro. La gratitudine è sorella dell’indignazione. Parole vuote con cui riempirsi la bocca se ci si limita a proferirle a braccia conserte. Gratitudine in azione: questo era uno dei moventi per cui Yan mi interessava, tra tutti il più nobile movente, devo dire. Ma ce n’erano altri. Un residuato di spirito crocerossino poi provvidenzialmente perso definitivamente per strada, un’attrazione sconsiderata per la follia umana, attrazione che porto tuttora con me ma che ai tempi di Yan mi conduceva più che all’empatia a una sorta di osmosi psichica che reputavo magica, atta a guarire i disturbati.

Infine, a mia insaputa, lo scrittore intravedeva una possibilità. Difatti, guardando le cose in retrospettiva, prima di incontrare Yan avevo scritto racconti più o meno brevi, che nella mia testa di allora avrebbero dovuto espandersi nelle stesse atmosfere che si respirano in queste pagine, mentre, compulsandoli oggi, ne salverei forse una manciata, dato che nei rimanenti vedo più che prodotti tentativi, più che figli aborti – e non escludo che da qui a qualche tempo, scorrendo queste righe, vedrò più disastri che luce. Tornando al dunque, benché allora non ne avessi cognizione, Yan era un dono per lo scrittore, era il movente per un nuovo romanzo.

Il cervello umano ha una struttura modulare, e di rado siamo consapevoli di tutti i moduli che in un dato momento compartecipano a quelle che chiamiamo le nostre scelte. Certo, bisogna ammetterlo, in fin fine tutte le scelte sono sempre nostre, e lo sono per definizione. Una ragazza di intelligenza ragguardevole mi costrinse a vedere questa verità quando le dissi che il figlio che lei voleva non lo voleva proprio da me, lo voleva e basta, e il fatto che ora lo volesse da me era dovuto alla circostanza più o meno casuale che in quel momento stava con me e non con un altro, altro che amore! Poi – qui viene il punto – le dissi che non era lei a volere un figlio, ma la sopravvivenza della specie, in una parola: i suoi ormoni lo volevano. Lei disse Io sono i miei ormoni, cazzone!

La ragazza aveva ragione, ma, per via dell’evoluzione, il cervello umano è divenuto, e resta, modulare: le neuroscienze lo sanno con certezza da diversi anni, e oltre due millenni prima Buddha riconobbe i moduli (o aggregati) semplicemente studiando se stesso. Nel mezzo svettano il Montaigne degli Essays, le sublimi disgregazioni psichiche di tutto Nietzsche, e il Pirandello di Uno, nessuno centomila.

Nella ragazza in questione il modulo della procreazione predominava su tutti gli altri moduli, e li annichiliva – conservazione della specie, manifestata in ormoni camuffati da buoni sentimenti, tutto qui. (Conservazione cui, in quel caso, alla fine non concorsi, essendo saggiamente prevalso, in me, il modulo della sopravvivenza, la mia, libera da ulteriori complicazioni. Mentre lei, la ragazza, obbedì al suo modulo facendosi ingravidare da un altro un mese dopo, a riprova del fatto che non voleva me ma un figlio; e quando il figlio nacque, la ragazza lasciò quell’altro, a riprova del fatto che voleva un figlio e non un uomo.)

Analogamente, quando i vicini di casa dell’uxoricida infanticida reo confesso affermano che da una persona così perbene, così ammodo, non si sarebbero mai aspettati un gesto tanto agghiacciante, non mentono né sono degli idioti. La realtà è che a un certo punto, nel cervello dell’assassino, non avvezzo a studiare se stesso, un certo modulo, ignoto alla sua coscienza (nonché a quella dei vicini), ha preso il sopravvento. E in un amen, con quattro colpi di mannaia ben assestati, ecco decollate le quattro teste umane da lui più amate fino a un momento prima.

Buonsenso vorrebbe che più che studiare a memoria le date delle guerre puniche e i capoluoghi di regione gli alunni venissero aiutati a mettere mano a cosa li anima quando strappano corpose ciocche di capelli alla compagna di banco, e cosa provano quando invece disegnano o cantano in coro, o si rincorrono in cortile, o rispondono male ai genitori, e via dicendo. Conosci te stesso è tra i motti più antichi del mondo tra i meno considerati, purtroppo. Men che meno lo è il Diventa te stesso cui ci esorta Pindaro.

Moduli: i nostri cervelli ne sono zeppi fino all’orlo, tanto quanto i nostri corpi sono pieni di batteri. Ma come di certi batteri veniamo a conoscenza solo quando si manifestano in forme patologiche, così di certi moduli restiamo all’oscuro finché non prendono il sopravvento su ciò che chiamiamo Coscienza. Poi con occhi instupiditi guardiamo la ciocca che stringiamo tra le dita e ci tappiamo le orecchie per non sentire gli strilli della compagna scotennata; e con gli stessi occhi instupiditi un po’ invecchiati guardiamo la testa di nostra moglie e le testoline dei nostri tre figli che ci guardano con occhi vitrei, e ci chiediamo Cosa è successo, cos’è successo, com’è potuto succedere? Non sono stato io, non sono stato io…

Moduli, questi sconosciuti intrecci di stati emozionali; moduli, i veri responsabili delle nostre scelte, del buongoverno o malgoverno della nostra vita, responsabili di tutto, anche delle scelte più futili. Crediamo, noi, che siano la nostra coscienza e il nostro buon senso a dettar legge, abbiamo bisogno, noi, di considerarci esseri razionali, di sentirci padroni di noi stessi. Ma finché dei moduli nemmeno ipotizziamo l’esistenza, continueremo a vivere schiavi dei loro colpi di testa. Certo, l’uomo intelligente vede le sue contraddizioni, e l’uomo consapevole le accetta. Ma sapere che quell’acquisto, non l’ho fatto perché lo volevo fare, ma perché il modulo della gratificazione (abilmente rinforzato da una sapiente campagna di marketing) ha prevalso sul modulo della prudenza, del risparmio, può essere d’aiuto. Sapere, poi, è di grande aiuto quando i moduli del caso lottano tra loro in merito all’opportunità o meno di decapitare moglie e figli.

Batteri, moduli. Chi sono io? Siamo certi di essere consapevoli come presumiamo di essere?

Già, perché senza che io ne fossi minimamente consapevole, quell’aula al primo piano della Learn New Languages School di Bo Phut divenne il teatro di nuove visioni non ancora addensatesi, non ancora mostratesi alla mia coscienza, il protagonista delle quali era inequivocabilmente Yan. Uno Yan trasfigurato, certo, reso pingue e basso, quando lui era invece altro e squadrato; uno Yan chiamato Massimiliano, italiano, quando Yan era americanissimo, ma uno Yan, anzi un Massimiliano, pur sempre cronista ancorché sportivo; un Massimiliano, infine, raggirato dalla thai dei suoi sogni proprio com’era lo era stato Yan nella realtà. Così che mentre la mia parlata inglese cominciava a sciogliersi in vocalizzi articolati e prendevo appunti sulla differenza semantica tra Lucky e Fortunate, a mia insaputa il modulo dello scrittore prendeva segretamente appunti mentali sulle vicissitudini di Yan: Madam, tutt’un’altra storia era stato fecondato. Ero gravido e non lo sapevo. Moduli.

C’era poi un altro aspetto – questo umano, troppo umano – che i gemiti e i lamenti di Yan mostravano a me stesso per rispecchiamento. Quanto tempo della mia vita avevo speso a lamentarmi, a compiangermi, a auto commiserarmi, a piangermi addosso come un’educanda ingiustamente imprigionata in una cella del convento? E fin dove avrei osato spingermi, proprio adesso, sulla strada che prima o poi mi avrebbe ineluttabilmente portato alle lacrime, se non fossi stato sufficientemente vigile riguardo a quella ninfa thai, quella Lady Baby Love che poi divenne la protagonista del romanzo omonimo della mia Trilogia Siamese?

Quanto è disposto uno scrittore a farsi a pezzi e perdere se stesso per poi ritrovarsi di nuovo tutt’intero in forma scritta? Non è affatto vero che Dostoevskij scrisse Il giocatore per pagare i debiti di gioco. È vero il contrario: Dostoevskij contrasse debiti di gioco per costringersi a scrivere Il giocatore. Scrivere viene prima dei debiti, viene prima di tutto. Analogamente – nel mio piccolo – non è vero che feci tutto il possibile per avere una buona relazione con Baby, al contrario ho sempre fatto l’impossibile per distruggerla, quella relazione, allo scopo di utilizzare l’angoscia che ne derivava come combustibile per scrivere Lady Baby Love.

 

Un mattino di sole Yan mi disse che quel giorno avremmo tenuto la nostra lezione – ossia mi avrebbe parlato di Ciuda – in montagna. Ci portammo dunque al passo che collega il versante sudorientale al versante nordoccidentale dell’isola. Lasciammo le moto sul ciglio e ci incamminammo lungo un sentiero in discesa. Raggiungemmo un corso d’acqua tumultuoso, un torrente temporaneamente in piena in quei giorni di monsone. Ne seguimmo la riva sinistra inerpicandoci su massi imponenti e scivolosi. Yan mi precedeva, si muoveva sgraziatamente ostentando nei saltelli da un masso all’altro una sicurezza che non aveva. Raggiungemmo uno spiaggione dove le acque si aprivano in un bacino e si calmavano. Il sole bruciava la pelle, così ci portammo all’ombra di un ficus immenso, alto come una quercia. Mangiammo il blue cheese di Yan acquistato al Big C e mangiammo il bagosso che avevo portato con me da Brescia. Per sua stessa ammissione, il gorgonzola americano era amaro e sapeva di plastica, il formaggio valsabbino sembrava rubato agli dei.

Ho vinto a mani basse, dissi.

Yan annuì con fare seccato. Disse Bella la tua moto.

È identica alla tua.

Ma la tua è nuova, disse di nuovo contrariato.

Stetti in silenzio.

Disse: Ciuda, mi ha lasciato solo la moto, solo quella. Ha fatto settantatremila chilometri. Come averne fatti duecentomila, in America. Per via del clima e delle condizioni delle strade, sai, tutte quelle asperità.

Disse proprio Asperities, e ne restai sorpreso. Di norma, nessuno yankee sa andare al di là di Bumps, Dossi; l’uomo della strada non avrebbe compreso quel termine, troppo colto per la media degli americani. Stemmo in silenzio per un po’, poi presi a interrogarlo. Scoprii che era abbastanza ferrato in etimologia – scienza senza la quale vivere mi piacerebbe un po’ meno – e benché non conoscesse il latino e il greco citò alcuni classici: Virgilio, Catullo e mi pare anche Lucrezio. A differenza degli altri americani che avrei incontrato negli anni a seguire, sapeva chi era Omero e chi era Dante. Gli feci leggere L’infinito nella versione inglese migliore che riuscii a trovare in internet. Dissi che la poesia di Leopardi era ricca di petrarchismi. Yan non capì. Ero lì lì per parlargli di Petrarca, di come, insieme a Dante e Boccaccio, avesse dato vita, a tavolino, alla lingua italiana, caso rarissimo nella storia delle lingue, una lingua creata da scrittori (e che scrittori!), quando Yan si coprì la faccia con le mani.

Non so più chi sono, disse. Scoppiò a piangere. Lo lasciai sfogare, poi sedetti al suo fianco sempre lì all’ombra del ficus gigante, e dopo un po’ gli misi una mano sulla schiena – forse avrei dovuto mettergli il braccio attorno al collo, ma mi riuscì soltanto di posargli la mano tra le scapole, dietro il cuore. Yan se ne stette lì con il testone ripiegato sul petto (aveva una testa molto grande, sproporzionata rispetto al resto del corpo, come la testa dei bambini molto piccoli.). Singhiozzava, e la mia mano sussultava a ritmo. Poi tolse le mani dalla faccia, e vidi il suo mento prominente andargli su e giù assecondando i singhiozzi, come certe marionette quando parlano.

Io… io… io, disse.

E in quel momento, io non pensai a Guenda. Guenda ancora non era ancora nella mia testa quando Yan disse balbettando Io, io, io. O forse c’era, ma chissà sotto quali spoglie, sotto quale nome. Fatto sta che mesi dopo, forse un anno dopo, quel torrente stagionale, quel bacino d’acqua calma sotto il ficus gigante… quella scena: quel pianto, quei singhiozzi, quella perdita di identità finirono per trasfondersi in Guenda, la coprotagonista di Madam, tutt’un’altra storia, e Massimiliano, il suo ex marito, prese il mio posto nel consolarla come io ora consolavo Yan, con la differenza che Massimiliano la abbracciava stretta anziché metterle semplicemente una mano sulla schiena. Ripensandoci adesso, la cosa curiosa è che Massimiliano era ispirato a Yan, ma lo stesso Massimiliano che consolava Guenda è ispirato a me che consolavo Yan.

Chi sono io? Chi era Yan? Chi siamo noi?

I trentamila bath arrotolati nascosti nel braccio del lampadario gli furono sufficienti per traghettarsi verso un impiego più o meno adatto a lui. Dico più o meno, perché come insegnante era un cane. Erano più le cose che lui apprendeva da me di quante io ne imparassi da lui. Tranne una, la solita, sempre quella: alzare la guardia. Se per scrivere un romanzo degno di questo nome tocca farti mangiare un pezzo di cuore, va bene, lo accetto, ma, perdio, che il portafoglio resti dov’è. I cuori infranti prima o poi si riparano da sé, i conti in banca prosciugati non si ripianano da soli. Questa era il paradigma sotteso al mio modulo di vigilanza e protezione allorché presi a frequentare assiduamente non son più nemmeno io come chiamarla tanti sono i nomi che le ho dato, comunque lei, sempre lei, la persecutrice di Lady Baby Love, che tiranneggiò la mia mente finché ne uscì buttata fuori dalla porta del mio bungalow e buttata fuori dalla porta di quel romanzo (ma restandone indelebilmente impressa in copertina) per poi rientrare dalla finestra dell’ultimo romanzo della trilogia, Miss Thaimatic, dove finalmente, assolti tutti i suoi scopi ispiratori e ricevuto perciò un congruo compenso, si è dissolta per sempre e se non per sempre per oggi di sicuro.

E se a lei dovevo il plauso che il poeta deve alla sua Musa del momento, a Yan dovevo di più. Una cosa è aver sentito parlare degli uomini rovinati dalle adescatrici thailandesi, una cosa è vederli deperire, frantumarsi giorno dopo giorno dopo giorno.

Nel tempo io e Yan eravamo diventati amici, per come si può concepire l’amicizia su un un’isola tropicale che è terra ma non terraferma, non perché si muova ma perché le persone schizzano in continuazione di qua e di là come cimici impazzite. Vanno vengono partono tornano restano cambiano casa volano via non tornano più, alcune muoiono qui alcune muoiono là alcune se ne stanno a casa disgustate dall’Oriente o così credono. La verità è che ci vogliono i coglioni di granito per vivere senza farsi male in questi letti di piume disseminati di lame e lamette più o meno infette.

A ogni buon conto, ci convincemmo di essere diventati amici. Ma come sempre accade dopo un po’, e come nelle faccende di cuore, la concezione che uno ha dell’amicizia finisce inevitabilmente per non corrispondere all’idea dell’altro. Per Yan, un amico era un suddito, e per quanto io fossi intenerito dal suo stato e determinato a ripagare attraverso di lui il mio debito di riconoscenza per l’aiuto ricevuto, non ero disposto a concedergli lo scettro cui ambiva assumendo (a torto) che il suo atteggiamento di perenne pretesa fosse legittimo, fondato com’era sul suo stato di poveruomo distrutto dal dolore.

Yan voleva attenzione ininterrotta, comprensione assoluta, continua consolazione, voleva compagnia in ogni momento; pretendeva che lo seguissi al ristorante, sempre lo stesso vicino a casa sua, e che fossi io a pagare il conto; voleva scegliere la spiaggia dove andare e l’orario cui andare, voleva che lo accompagnassi all’ufficio immigrazione perché stare in coda da solo l’annoiava. Quando mi trovavo in Italia, mi telefonava via Skype di continuo, voleva vedermi in faccia, aggiornarmi su Ciuda, dirmi che l’aveva incontrata al Big C insieme a quel Lionel, e che lei non l’aveva salutato, e che lui, Yan, ne aveva tratto la conclusione che Ciuda non l’aveva salutato per non esporsi con Lionel, ma in fondo amava ancora lui, Yan. A quel punto mi guardava fisso attraverso lo schermo come un barbagianni imbalsamato aspettando un mio cenno di conferma. Cercavo di cambiare discorso. Yan non ascoltava una parola, mi interrompeva di continuo, voleva che al mio ritorno gli portassi un certo tipo di occhiali da vista perché aveva un certo problema agli occhi, che gli portassi un certo specifico dentifricio perché aveva un problema alle gengive, che gli portassi mezzo chilo di bagosso e un chilo di parmigiano, perché il bagosso gli piaceva sì, ma meno del parmigiano, che gli procurassi un certo spinotto per il suo computer, che all’aeroporto gli comprassi un certo profumo francese da regalare a Ciuda la prossima volta che l’avesse incontrata al Big C senza quel Lionel appresso. Yan voleva tutte queste cose e cose similari e altre che ho dimenticato – beninteso che mi avrebbe ogni volta rimborsato. Le telefonate, interminabili, si chiudevano di regola con la richiesta che fossi io a cercarlo su Skype alla prossima occasione, perché, insomma, era sempre lui a cercare me, che prendessi io l’iniziativa qualche volta, e poi mi chiedeva, pretendeva che io anticipassi il mio rientro a Samui perché si sentiva solo.

Quando chiudevo la telefonata mi ritrovavo ogni volta sfinito, poi sospirando mi dicevo che quel supplizio faceva parte del mio debito di gratitudine. Non appena facevo ritorno all’isola mi toccava sorbirmi il suo scontento per non averne soddisfatto le richieste… come avrebbe fatto adesso senza quegli occhiali? Sarebbe diventato cieco, sì, cieco e poi sdentato, dato che non gli avevo portato neanche il dentifricio anti piorrea, e in quelle condizioni Ciuda, che lo amava ancora, non l’avrebbe voluto più.

Non mi ritengo un masochista, non in modo preoccupante: Yan continuava a interessarmi per un’altra ragione. Ho un debole per gli alcolisti che smettono di bere, e Yan aveva l’indole e i tratti di carattere (pessimi) dell’alcolista all’inizio del recupero, eppure, come scoprii un po’ alla volta, non era un alcolista. A pranzo e a cena non beveva. Certo, di tanto in tanto si sbronzava, ma l’alcol non era una componente significativa della sua vita.

Non sono un alcolista, mi disse lui stesso quando fece ritorno da una riunione degli Alcolisti Anonimi, dove l’avevo indirizzato dopo che mi ebbe messo a parte delle sbronze che aveva preso quando Ciuda l’aveva depredato. Io non sono come loro, disse. In Alcolisti Anonimi non ci metterò più piede! disse guardandomi con occhi accusatori, come se il suo non essere alcolizzato fosse colpa mia.

Disse poi Sai, adesso parlo con una monaco buddhista. Viene a trovarmi sera sì, sera no.

Ah sì, e cosa ti dice?

Niente, mi ascolta per tutto il tempo.

Povero monaco.

Come sarebbe povero? Da me impara un sacco di cose.

Non mi dire.

Sì, è umile, lui. Domani andiamo a fare snorkeling?

Il giorno dopo mi raggiunse sulla spiaggia di Taling Ngam con tre ore e passa di ritardo, quando ormai era buio pesto, e io avevo finito di fare snorkeling da quasi due d’ore e me ne stavo sdraiato in spiaggia innervosito dall’attesa ma risoluto a godermi il fruscio delle stelle e basta.

Ho con me la torcia subacquea, disse senza scusarsi per il ritardo. La tirò fuori dalla borsa e la accese. Una luce fioca si diffuse dalla parabola. Yan emise una sorta di nitrito.

Forse al bar hanno delle batterie da prestarmi (disse proprio prestarmi). In quattro falcate raggiunse il locale alle nostre spalle. Nel salire le scale incespicò e si sbucciò un alluce, probabilmente una cosa da niente, ma lui prese a strillare all’indirizzo delle cameriere, che, insomma, dovevano sbrigarsi, lo dovevano soccorrere, disinfettare, mettergli un cerotto. Dieci minuti dopo tornò da me con il suo cerotto al dito e me lo mostrò tutto inorgoglito. Poi infilò le pinne, calzò la maschera, addentò l’erogatore e gorgogliando come una moka raggiunse la riva a passo d’oca e poi sparì nel buio. Fece ritorno dieci minuti dopo. Ho visto un polipo, disse, poi però le batterie si sono scaricate e non ho visto più niente. Adesso gliene dico quattro a quelle là. Ho urtato un ramo di corallo, mi sa che mi sono tagliato una coscia, ecco, qua dietro, la vedi la ferita?

È buio pesto, Yan, non sono un gatto. Vai dalle ragazze al bar, sono state così gentili con te, vedrai che un altro cerottino te lo mettono, intanto gli fai le rimostranze per le batterie.

Dopo quell’episodio ne ebbi abbastanza di lui. Presi a evitarlo, a non rispondere alle sue telefonate, a richiamarlo, se lo richiamavo, il giorno dopo nelle ore in cui presumevo dormisse. Yan era irrecuperabile. La sua psicopatia, perché di questo si trattava, gli era del tutto ignota. Sconosciuta a lui quanto lo era a me – moduli! Per anni lo avevo incoraggiato, sostenuto, supportato e sopportato; avevo provato prima con le buone, poi con le cattive, poi con il sarcasmo, cercando in ogni modo di scuoterlo, di tirarlo fuori da quel suo torpore lamentoso, ma a questo punto era chiaro che per lui non potevo fare altro. Il mio debito di gratitudine verso la vita era stato assolto, e adesso del suo destino mi importava poco o niente. Era privo di autocoscienza e si era rivelato anche privo di intelligenza, di quel minimo di intelligenza necessaria a sopravvivere, soprattutto ai tropici. Un pazzo, se dotato di cervello e di consapevolezza, può imparare a gestirla la sua follia, e può gestirla bene come provano schiere di scienziati capaci e di artisti di talento. Ma un pazzo inconsapevole e cretino non è adatto a questo mondo, tantomeno a queste latitudini, e non merita di starci. Se non gli fosse mancato anche il coraggio, farsi fuori non sarebbe stata una cattiva opzione. Avrebbe evitato ulteriore dolore a se stesso e non pochi fastidi a chi gli stava attorno.

In fin fine quella cena l’avevo organizzata precipuamente per lui, per tirarlo fuori da quella scuola che lo pagava poco o niente in cambio del poco o niente che lui dava ai suoi allievi, anzi a me, unico suo allievo per tutto il tempo in cui lo frequentai. Poi però c’era stata l’ennesima pantomima, la sceneggiata dello snorkeling, e meditavo di disdirla, quella cena. Ma era già stata programmata, gli inviti erano stati recapitati e avevo con me due chili di bagosso e due chili di parmigiano, trasportati dall’Italia nella mia valigia e introdotti in Thailandia a mio rischio e pericolo, da mettere in tavola per condirci gli spaghetti e da portarsi a casa dopo cena un paio di pezzi a testa se rimasti. Era troppo tardi per annullare e per giunta Mooy Toho non me l’avrebbe perdonata. Non che lo temessi, ma averlo dalla mia era meglio che avercelo contro. Godeva fama di essere tra gli uomini più ricchi di Bangkok, aveva compartecipazioni azionarie in diverse società alberghiere a Samui e sulla costa, aveva una fabbrica di gomma alla periferia di Bangkok, aveva una cinquantina di appartamenti sparsi per i quartieri residenziali della stessa Bangkok, e aveva anche un veliero tutto suo, a bordo del quale sarei naufragato nel Golfo di Thailandia – ma questa è un’altra storia. Con cadenza bimestrale, Mooy Toho lasciava la capitale e si concedeva una settimana di vacanza alloggiando in uno dei resort che facevano capo alle sue società, sempre quello, dove a quel tempo alloggiavo anch’io.

Un giorno – ero a Samui da pochi giorni per la prima volta in vita mia – Mooy Toho, che ancora non conoscevo, mi fece invitare a pranzo. La sua portaordini, la direttrice del resort, una donna larga dalla faccia piatta, mi disse che dovevo ritenermi un uomo fortunato, era un onore ricevere un invito di Khun (Sua Eccellenza) Mooy Toho, e poi disse con occhi duri che non era il caso di rifiutare. Andai, dunque, al pranzo e feci conoscenza di quell’uomo. Era un settantenne di origine cinese basso e orgogliosissimo. Aveva mani gialle, piccole e molli. Occhi puntuti, severi, scaltri. Se rideva, rideva solo delle sue battute, quasi sempre incomprensibili.

Nei giorni precedenti la cena indetta a beneficio di Yan mi ero imbattuto in Mooy Toho arrivato il giorno prima per la sua solita vacanza bimestrale. Avevo tastato il terreno, e alla fine ne era venuto fuori che sì, forse sì, un interprete madrelingua per la sua fabbrica della gomma gli avrebbe fatto comodo. Mi disse di volerlo conoscere, questo Yan. A quel punto lo invitai alla cena a base di formaggio. Mi disse di destare i latticini. Gli dissi che avrei potuto fargli servire del pesce, dei crostacei a suo piacere. Con gli occhi al cielo disse Dovresti saperlo, mangio solo carne di porco!

A tavola eravamo una decina, forse meno, Mooy Thoo a un capotavola, io al capotavola opposto. Yan sedeva vicino a Mooy Toho, due posti più in là. Mooy Toho era fiancheggiato dalle due sole donne presenti, la direttrice del resort dalla faccia schiacciata e una tedesca lunga lunga con lo scheletro bene in evidenza e un sorriso da cavalla, ospite del resort, che Mooy Toho si era tirato dietro senza peritarsi di avvisarmi.

Era una serata calda, e l’atmosfera era morbida, perfetta, con la luna alta sul promontorio di Mae Nam e le stelline attorno, e il mare placido come un lago sciabordava appena sulla spiaggia, bianca sotto la luce dei lampioncini. Yan poteva avere quel posto, l’universo gli era propizio. D’altra parte l’avevo doviziosamente istruito: lasciare ai Mooy Toho l’iniziativa di prendere la parola, lasciarlo parlare, ascoltarlo senza interromperlo, cosa dirgli e soprattutto cosa non dirgli, evitare le spiritosaggini, ridere delle sue battute insipide, e così via. Se avesse seguito le mie istruzioni, ci sarebbero state buone possibilità di avere quel posto. Ma prima ancora che la cena fosse servita, il genio di Chicago si era sporto in avanti, oltre il profilo equino della tedesca, per rivolgersi proprio a lui, Mooy Toho.

Lei di cosa si occupa?

Mooy Toho scosse la testa con fare indispettito.

Me lo dica, mi interessa, disse Yan.

Mooy Toho sbuffò, poi prese in mano una forchetta e la fece roteare tra le dita finché la forchetta gli cadde nel piatto vuoto e poi rimbalzò e scivolò a terra. Una cameriera accorse, raccolse la forchetta e tre secondi dopo gliene recapitò una pulita. Lui guardò la nuova forchetta, poi guardò Yan, sempre sporto in avanti, in attesa, come stesse alla finestra. Mooy Toho prese la forchetta tra le dita e non la fece roteare.

Sono proprietario di diversi resort, incluso questo. E ho una fabbrica di gomma. Fornisco gomma per pneumatici a diversi Paesi asiatici. Rifornisco anche mezza Europa, inclusa l’Italia (mi gettò uno sguardo che voleva essere complice, ma che avrei detto contrariato). Adesso sto prendendo in considerazione l’idea di espandermi negli USA. Il mercato americano è l’ambizione di ogni…

Yan disse Produce anche preservativi nella sua fabbrica di gomma?

Vidi il viso di Mooy Toho pietrificarsi. Vidi il mare congelarsi, la luna spegnersi. Sentii il flusso del tempo che si arrestava. Vidi i miei ospiti tutti con gli occhi fissi su Mooy Toho, mentre Yan sussultava sghignazzando con una mano alla bocca.

Il silenzio seguì il suo corso come un lutto, poi qualcuno disse qualcosa in merito a Ko Tao, qualcun altro gli andò dietro parlando di immersioni, e la conversazione si riavviò, e poi tutti, inclusa la cavalla macilenta, si avventarono sugli spaghetti conditi con scaglie grossolane di bagosso e parmigiano. Mooy Toho tastò il suo spiedino di carne di maiale, poi schifato lo rigettò nel piatto e passò il resto del tempo a guardare dritto davanti a sé, guardava me e guardava oltre le mie spalle, e il suo sguardo era malvagio in entrambi i casi, e non proferì più una sola parola se non al congedo, quando rivolgendosi alla tedesca le disse in un inglese affettatissimo Lei, è proprio incantevole, signora, e quella in contraccambio gli mostrò la dentatura.

Da quella sera non volli più saperne di Yan, questa volta facevo sul serio, tanto che glielo dissi subito dopo cena mettendogli in mano i suoi pezzi di formaggio. Ma, come sempre quando c’era da ignorare i dati di realtà, Yan diede prova di essere imbattibile. Continuò a telefonarmi tutti i giorni, più volte al giorno, e dato che non gli rispondevo, cominciò a tempestarmi di messaggi, ora supplichevoli, ora esplicativi delle motivazioni della sua battuta sui preservativi, ora ingiuriosi, ora moralistici, adombranti questi ultimi il valore dell’amicizia – ma in nessun modo riuscì a scalfire l’irrevocabilità della mia decisione.

La penultima volta che lo vidi si aggirava tra gli scaffali del reparto dolciumi del Big C. Erano passati più di due anni da quella cena vergognosa, e grazie a un lavoro minuzioso di savoir-faire e di intricata diplomazia alla Mata Hari ero riuscito a riallacciare con Mooy Toho, a riconquistarne la fiducia. Ne ebbi prova il giorno in cui mi invitò a bordo del suo yacht a vela per poi concedermi il privilegio di naufragare insieme a lui, ma questa come ho già detto è un’altra storia.

Quando vidi Yan tutto preso a ravanare tra i ripiani della chimica dolciaria del supermercato, mi defilai dietro un angolo e lo osservai. Il testone gli era franato tra le spalle e si protendeva in avanti – una protesi innestata sullo sterno più che una testa eretta su un collo. Sotto i bermuda le gambe gli erano smagrite in modo impressionante e le ginocchia sporgevano nodose come quelle degli struzzi. Con mani tremolanti afferrava stecche su stecche di cioccolato al latte, le portava vicinissime agli occhi, le annusava e poi le ributtava dove capitava. Andò avanti così per un po’, poi si girò e si allontanò a mani vuote procedendo stancamente, guardando di qua e di là, la mandibola che scattava in continuazione a mordere l’aria, estroflessa in un prognatismo animalesco, da dinosauro imbolsito.

Certo, gli anni erano passati anche per lui – doveva averne sessantaquattro o sessantacinque, adesso –, ma il suo decadimento era così sconvolgente che lo attribuii più che all’invecchiamento alla sua solita ossessione, ossessione che aveva una connotazione unica nel vasto panorama del mal d’amore. La calamità che perseguitava Yan non stava tanto nel fatto che amasse ancora Ciuda, quanto nella convinzione che lei amasse ancora lui. Questo disturbo cognitivo è comune negli uomini abbandonati. Ma l’uomo sano o mezzo sano la supera abbastanza rapidamente. Resterà innamorato per un po’, forse per un bel po’, ma dopo qualche tempo dal tracollo normalmente smetterà di credere che lei lo ami ancora, se ne farà una ragione e continuerà a vivere la sua vita in compagnia delle vecchie cicatrici e delle ferite ancora aperte.

Yan no. Yan era un uomo in carne e ossa che nessuno scrittore, credo, potrebbe impunemente esportare tale e quale in un romanzo. Non sarebbe credibile. Anni fai ne parlai a un amico, un pittore talentuoso, anche lui finito male per questioni analoghe aggravate dall’uso di stupefacenti. Mi ero fatto un’idea sull’impossibilità della rappresentazione pittorica di certi dettagli o scorci o prospettive della realtà che se dipinte non sarebbero plausibili. Troppo vere per essere verosimili. Troppo reali per essere realistiche. Non sono certo che il mio amico fosse in grado di capirmi, era già piuttosto rimbambito. D’altra parte, non mi riuscì di fornirgli esempi concreti, che a un pittore sono necessari più che a uno scrittore – il quale dipinge con tutto, anche con le idee.

Ma quando mi capita di vedere certi frammenti del mondo circostante da certe angolazioni, ogni volta mi dico Questo dettaglio non è rappresentabile, è troppo originale, tropo anomalo e troppo vero per essere dipinto. O scritto. Così era Yan. Nessun lettore leggerebbe volentieri di un personaggio completamente privo di qualità. Lo riterrebbe inverosimile. Nella vita c’è sempre un germe di vittoria nel perdente e c’è sempre un germe di sconfitta nel vincente.

E se è vero che Yan mi fornì l’ispirazione per Massimiliano, è altrettanto vero che dovetti lavorare parecchio a quel personaggio per renderlo credibile. Dovetti arricchirlo di qualche pregio, dargli la luce d’intelligenza, infondergli un qualche senso di ironia, fargli vincere qualche battaglia, mostrarlo infine come prevalentemente perdente, mentre Yan lo era in modo assoluto. Yan era fuori da ogni relativismo. Sotto questo profilo era un dio.

L’ultima volta che mi imbattei in lui fu quando lo vidi lanciarsi fuori dal concessionario Honda di Mae Nam a bordo della sua vecchia moto. Schizzò fuori dal cancello a uno velocità pazzesca, non indossava il casco, e il solo dettaglio che mi è rimasto impresso è la sua mandibola protesa, bombata come una carenatura. Senza quasi guardarsi ai lati si immise di prepotenza sulla carreggiata opposta, si gettò nel traffico e poi svanì come un presagio in direzione di Nathon.

Giorni dopo venni a sapere che era stato ricoverato al Samui Hospital della stessa Nathon con un ematoma alla testa e un femore fratturato. Forse era uscito troppo forte da una curva e aveva perso il controllo della moto. O forse un cane o un insetto, un’ape l’aveva attaccato e lui aveva sbandato finendo fuori strada. Nemmeno la polizia riuscì a ricostruire con esattezza la dinamica dell’incidente. L’unica cosa certa era che non c’era stato impatto con altri mezzi: ancora una volta Yan aveva fatto tutto da solo.

Qualcuno mi disse che giaceva su una barella confinata in corridoio – nel reparto di ortopedia i letti erano tutti occupati (prevalentemente da motociclisti infortunati). Giorni dopo qualcuno andò a trovarlo e mi riportò sue notizie. Sembrava in ripresa. Morì una settimana dopo. Un embolo risalito dalla frattura al femore o un’emorragia cerebrale conseguenza del trauma cranico. Seppi che aveva un fratello gemello di cui non mi aveva mai parlato. Il gemello vendeva automobili a Helena, su nel Montana. Venne avvisato, ma non si schiodò dalle sue auto. Tre giorni dopo, Yan venne cremato al tempio di Nathon. Non partecipai alla cerimonia, dentro di me era morto da tempo.

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