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Facebook ovvero Siate brevi, se potete

Facebook ovvero Siate brevi, se potete

1. Il dinosauro

 Cuando despertó, el dinosauro todavía estaba allí.

Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì.

Questo racconto – considerato il più breve racconto del mondo e inserito come tale nel Guinness dei primati – non sarebbe piaciuto a Proust. Quando Gide lesse il manoscritto del primo volume della Recherche, disse: “Sarò particolarmente tonto, ma non riesco a capire come questo signore possa impiegare trenta pagine a descrivere come si gira e si rigira nel letto prima di prendere sonno”. Anni dopo, lo stesso Gide stigmatizzò il proprio diniego alla pubblicazione della Recherche come l’errore più imperdonabile della sua vita.

Narrazione lunga di oltre tremila pagine oppure breve di sette parole soltanto? Questione di gusti personali, soggetti anch’essi a mutamento, come appena visto.

Al pari della seduzione della lunghezza estrema, resta innegabile il fascino insito nell’estrema brevità. Personalmente amo Proust come nessuno (eccetto Kafka): la sua prosa sinfonica ha sviscerato tutti i temi dell’animo umano, cioè tutti i misteri dell’universo più o meno conoscibile. Mi irrita, per contro, il minimalismo: Carver non mi dice nulla – e analogamente nulla mi dicono lo Zen, le case spartane, gli arredi semplici, la nouvelle cuisine, l’essenzialità in genere. Eppure il racconto breve mi seduce, e quando è degno sa incantarmi, quale che sia la forma assunta: narrazione, dialogo, sentenza, epistola, ecc.

Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì.

Calvino adorava questa storia al punto di riportarla per intero nel suo saggio postumo Lezioni Americane. Sei proposte per il prossimo millennio, come esempio paradigmatico di una delle qualità (secondo lui) imprescindibili della scrittura: la concisione.

Autore de Il dinosauro è Augusto Monterroso, nato a Tegucicalpa, Honduras, nel 1921 e divenuto maestro indiscusso per l’appunto del racconto breve. Tra i suoi lavori, suggerisco il superlativo Opere complete, in Italia edito da Zanzibar (già l’ironia del titolo lo rende un capolavoro di per sé).

La scrittura di Monterroso brilla rapida e tesa, asciutta e incisiva, sprigiona una potenza primordiale – un fulmine sovraccarico di intelligenza e d’irrisione, di simboli e paradossi. Il suo eloquio perfido e velenoso, tagliente e corrosivo lo vide protagonista di risse da bar, scoppiate nei localacci di Città del Guatemala tra poeti e scrittori autoditatti che amavano venire alle mani con il pretesto di una citazione latina o greca non corretta.

Nel 1972 Monterroso pubblica Moto perpetuo. Eccovi l’incipit: “Ci sono tre temi: l’amore, la morte e le mosche… Dei primi due si occupino gli altri. Io mi occupo delle mosche, che sono migliori degli uomini, ma non delle donne”.

Le donne. Le donne le amò sovrumanamente. Sovrumanamente smitizzò tutto, inclusa la morte. Nel 1997 conseguì il Principe delle Asturie, il massimo riconoscimento per scrittori di lingua spagnola. Se la galassia della letteratura è incrociata di tanto in tanto da super scrittori volanti, Monterroso è uno di loro. Ogni tanto lo si vede avvolto nel suo mantello color rubino sfrecciare attorno a Urano e prendere lo slancio per tornare a noi ruttando rhum.

Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì.

Le suggestioni che questo racconto suscita sono così evidenti da non necessitare di commento. Nelle sette parole della versione in lingua originale sono evocate – e raggirate – le innumerevoli, contrastanti teorie sull’estinzione dei dinosauri, uno dei massimi enigmi della paleontologia. Ma in quella riga c’è – infinitamente – di più. Senza scomodare i paradigmi della poesia simbolista, non ci vuole chissà quale sensibilità perché nel nostro cuore, come per effetto di una lirica pervasiva, rimbombi un’eco che si ripete ogni mattino, non appena apriamo gli occhi. Quando mi sveglio, sono ancora lì.

Monterroso, invece, non è più qui. Morì nel 2003 per niente gratificato dall’essere finito in quel variopinto guazzabuglio di idiozie da baraccone che è il Guiness dei primati. La sua inesauribile carica di auto ironia non poté far fronte a un’onta che nemmeno la sua inesauribile carica di immaginazione avrebbe potuto vagheggiare.

 

2. Per me stai ancora dormendo

Macchina parcheggiata entro bevo un caffè esco un furgone mi ha sfondato la portiera mandandomi in frantumi pure il vetro gli dico cazzo lui mi risponde mi sono da poco svegliato gli rispondo non credo proprio per me stai ancora dormendo

 Quando un mattino dell’estate scorsa ho letto su Facebook questo post sono rimasto basito. Non riuscivo a credere ai miei occhi. Li ho stropicciati come mi fossi imbattuto in un manufatto alieno, poi ho letto di nuovo.

Vale pur la pena bazzicare Facebook o quanto meno vivere, mi son detto poi, se oggi capita di imbattermi in un uomo, Paolo Scavuzzo, che da non scrittore è in grado di creare una narrazione tanto abbagliante e lucida, circostanziata, compiuta e perfetta. Il giorno stesso ho contattato Paolo, chiedendogli l’autorizzazione a pubblicare il suo post, allorché mi fossi deciso a scrivere una nota sul racconto breve. Superato lo stupore per i complimenti con cui, eccitato e commosso, lo investivo, Paolo mi ha tranquillamente detto Fa come vuoi, quello che è su Facebook appartiene a tutti.

Macchina parcheggiata entro bevo un caffè esco un furgone mi ha sfondato la portiera mandandomi in frantumi pure il vetro gli dico cazzo lui mi risponde mi sono da poco svegliato gli rispondo non credo proprio per me stai ancora dormendo

Nessuno, credo, disponendo degli stessi elementi, avrebbe saputo far meglio. C’è tutto, senza un virgola di troppo. Anzi, la punteggiatura è totalmente assente, e non se ne sente la mancanza come le zanzare in un’estate immaginaria libera di zanzare. Gli stilemi sono congrui, omogenei, una fondu che sarebbe piaciuta a Proust. E l’ironia – l’autoironia sovrana di chi ha subito un danno di buon mattino e trova le parole (precise) per scherzarci sopra – l’ironia chiude il percorso narrativo in un cerchio perfetto. Morale: ogni volta che questa storia mi capita sotto gli occhi la leggo come minimo tre o quattro volte, con le pupille imprigionate nel loop di un buon vinile che gira e gira.

 

3. La gente non ha senso

Gira e rigira, giriamo pagina con un’altra perla, beccata poche ore fa pure su Facebook. La scrivente – Barbara Isabella Fior – è una scrittrice vera nonché l’unica persona al mondo che ancora stenta a riconoscerlo.

mi dice uno stamattina “perché la gente non ha il senso dell’arte”

no tesoro la gente non ha proprio senso.

A differenza di Paolo, Barbara si è data da fare con la punteggiatura, seppure in modo sapiente e parco – virgolette e punto fermo (uno solo per sancire la fine della storia).

Anche qui l’ironia trabocca. Ma si tratta di un’ironia di ordine diverso. Chi scrive – per sua natura (e perciò spesso in modo inconsapevole) – si colloca su un piano diverso, analogo a quello dell’analista di laboratorio che al microscopio osserva i batteri agitarsi nel vetrino o del generale che dall’altura scruta le truppe con il binocolo. La micro o macro visione, anzi la distorsione della percezione, è un fenomeno che appartiene a tutti, ma che negli scrittori (e nei pittori) è meglio osservabile, perché essi soltanto ne lasciano traccia scritta (o dipinta). Gli umani che non scrivono si limitano a vivere, cosa che gli scrittori raramente fanno e quando fanno fanno piuttosto male.

mi dice uno stamattina “perché la gente non ha il senso dell’arte”

no tesoro la gente non ha proprio senso.

Mi dice uno stamattina. Uno, non Tizio o Caio o Mevio o Filano o Proculo. Uno. Indistinto. Il che non viola il paradigma della precisione scritturale tanto amato da Calvino, anzi, al contrario, pervade il racconto di quella precisa, seduttiva componente misteriosa dalla quale il lettore ama essere avvinto.

La gente. Tutti sanno che la gente è una categoria che non esiste. Contraddicendomi: la gente sa che la gente non esiste. Contro contraddicendomi: la gente non esiste, esistono le persone. La folla esiste. La gente no. Gente non vuol dire nulla. Proprio perciò, in tale contesto di vuoto di senso, vuole dire tutto.

Tesoro. Nel giro di due righe uno diventa tesoro. Non ci è dato di sapere se quel tizio chiamato prima uno e poi tesoro sia caro all’autrice tanto da legittimare il secondo epiteto. Ma dal prosieguo della battuta è facilmente intuibile che quel tesoro è impregnato della condiscendenza di chi ha capito tutto (la scrittrice) verso chi l’ascolta o la legge (e a lei soggiace). Tanto è vero che tra quella gente che non ha proprio senso non è difficile scorgere il coprotagonista uno/tesoro che agita la manina. Sono qui, sono qui, piagnucola saltellando per mettersi in mostra. Barbara, Barbara, getta lo sguardo su di me, illuminami, la supplica.

A proposito, non avete idea del novero di persone – della quantità di gente – che non appena saputo del mio essere scrittore, mi investe di preghiere, di esortazioni, di ingiunzioni a raccontare la storia della loro vita, tutti portatori insani di quel male universale che è il mal di vivere autoreferenziale – e lo chiedono proprio a me, che già faccio fatica a raccontare la mia di vita, che quasi non leggo narrativa a me nuova, ma – smanioso di godere e di imparare come sono – rileggo sempre la stessa, collaudata e trovata eccelsa. Lo chiedono a me che per mostrare la demenza individuale e collettiva trovo più spunti nella fisica quantistica delle stringhe e delle brame oscillatorie che nei pettegolezzi della parrucchiera sotto casa.

Tornando a noi, abbiamo visto sopra che quel tesoro è impregnato della condiscendenza di chi ha capito tutto (la scrittrice) verso chi la ascolta o legge. Le cose non stanno così, in verità stanno all’opposto di così. Lo scrittore non ha capito niente, se avesse capito non dico tutto, ma qualcosa, chi glielo farebbe fare, anziché di vivere, di cavarsi il sangue e l’anima, di cavarsi gli occhi in solitudine per cercare di mostrare (e dimostrare) al mondo che lui – soltanto lui – ha capito tutto? Rispondo elusivamente con un’autocitazione: Scrivere è un lavoro sporco, qualcuno deve pur non farlo.

mi dice uno stamattina “perché la gente non ha il senso dell’arte”

no tesoro la gente non ha proprio senso.

Il senso dell’arte? E chi ce l’ha più? Barbara? Io? Tu? Voi?

Il secondo rigo del racconto splende sublime attorno alla narratrice-protagonista che torreggiando come un demone ieratico non si degna di rispondere a una domanda senza senso, posta (e posata) ai suoi piedi da quell’omino senza senso. Lo stesso vuoto di senso, guarda caso, che caratterizza la gente. Non è il senso dell’arte che è andato perso, è l’umanità a essere perduta.

Si fa strada la domanda: chi come Barbara o come me o come altri (tanti? pochi?) ne è consapevole e perciò salvo?

Dite una parola soltanto e l’anima vostra sarà salvata.

Il punto è: quale parola?

Perdono, Abracadabra, Fanculo o Allegria con la A finale strascicata?

 

 4. L’uomo oggetto

 

L’uomo oggetto usato di getto fu gettato dopo l’uso.

 

La bocca di un muto avvicinò l’orecchio di un sordo. E lo baciò.

 

Venne il tempo in cui Eros e Thanatos furono chiamati a compiere il loro destino. Eros, dunque, si innamorò di Thanatos, e Thanatos lo uccise.

 

 Dalla cassetta della posta, che ogni giorno trovo vuota, deduco che ogni giorno, prima di deciderti a non scrivermi, devi pensarmi a lungo.

Narciso

 

Quando dio mise mano alla mia identità era sotto LSD. Quando creò Luughita ce l’aveva duro.

 

Dopo aver fatto sesso, Luughita mi parla dell’amore.

Dura tre anni, dice.

Naaa, faccio io, dura un’ora. Un’ora, quando va bene.

Luughita sorride e in quel sorriso io sento tutto il suo amore.

Era amore vero, lo giuro, e sarà durato due secondi, forse tre.

 

5. A lungo mi sono coricato presto, la sera.

Al pari della seduzione della lunghezza estrema, resta innegabile il fascino insito nell’estrema brevità. Forse perché gli estremi si toccano e a noi piace toccarci, forse perché scrivo solo per me stesso e per chi conserva una lacrima di sensibilità. Il sentore pungente, caldo e vegetale dello sterco bovino schiacciato sull’asfalto, l’odore aspro e scolastico della vendemmia, lo scoppiettio elettrico delle castagne sul fuoco, il sapore dolce, fruttato e frizzantino del mosto, un certo profumo di menta e limone tra le scriminature dei capelli di nonna.

Se, confidando nelle vostre capacità evocative, dovessi compiere un atto inconsulto, di un’arroganza senza pari, un gesto estremo, letale, artistico e molto, molto più che irriverente, una bestemmia, una blasfemia, un’eresia dadaista contro la Letteratura mondiale, sapete che farei?

Prenderei la Recherche, le sue tremila e rotte pagine, i suoi periodi ipertrofici, le sue coordinate, subordinate e perifrastiche, i suoi incisi, le sue parentesi, gli incisi degli incisi, la sua congerie di figure retoriche, sineddochi, accumulazioni, allegorie, chiasmi, brachilogie, anafore, metafore, e quant’altro, e ridurrei ogni cosa all’osso, ridurrei tutta la Recherche a un ossicino, attorno al quale, grazie ai vostri magici poteri evocativi di lettori capaci di Memoria, tutta le vite, tutti i mondi passati e futuri si rimpolperanno come fibre muscolari protese in un eterno presente. Il vostro.

Se Duchamp ha messo i baffi alla Gioconda, chi può impedirmi di ridurre il romanzo più lungo di tutti i tempi a un racconto brevissimo, figlio di questi tempi fulminei, chi mi impedisce di salvare solo l’incipit, meglio ancora, solo la prima frase dell’incipit dell’intera opera che è di per sé una sublime evocazione, e lasciare il resto ai voli inferi e superni della Memoria del Lettore?

 

Longtemps, je me suis couché de bonne heure.

A lungo mi sono coricato presto, la sera.

 

 

 Brescia, 2013 – 2019

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