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L’ala

L’ala

L’ala era sempre lì, a certificare con la geometria trapezoidale della sua presenza che non si era trattato di un incubo ingombrante, era tutto vero, l’aereo era precipitato a una trentina di metri da dove era stata la mia testa risoluta a fracassarne un’altra con una pietra. Si innalzava ortogonalmente sulla superficie del mare, imponente come una grande vela senza segni di identificazione, come già detto, ma adesso non vibrava più. Era completamente verniciata di nero, di un nero opaco ruvido quasi fumoso, e si stagliava nel cielo senza nuvole per ciò che era, una banale ala nuda e cruda. Calcolai che dovesse essere alta almeno una ventina di metri, e malgrado l’uniformità e la cupezza della verniciatura riuscivo a riconoscere i flap divisi in due sezioni, mentre lo spessore, dalla mia posizione, non era identificabile. L’ampiezza e la complessità della radice alare facevano pensare a un velivolo con ali a geometria variabile.

I motori superstiti, tre dei quattro turbo-fan solidali alla fusoliera del tutto sommersi, si spensero in un flebile muggito agonico, l’incidente era concluso. Nel frattempo una grande folla sciamante era accorsa e già si era adunata sulla spiaggia del Black Pearl imprigionandomi nel suo stesso carname urlante: impensabile lasciare le scale dove ancora mi trovavo per avvicinarmi all’ala e misurarne lo spessore da una posizione sfalsata rispetto all’asse. Altri correvano convergendo alla mia sinistra, e vedevo i bagliori intermittenti dei riflessi degli schermi dei cellulari tenuti alti sopra le teste, e poi vidi due bambini molto piccoli dai capelli quasi bianchi venire urtati, buttati a terra, e poi calpestati da diversi piedi finché la madre, per proteggerli, si gettò a corpo morto su di loro e venne ripetutamente calpestata a sua volta. Le venditrici ambulanti mollarono le loro mercanzie e si associarono alla corsa collettiva, e alcuni di quelli che le seguivano ne approfittarono per rubacchiare dalle loro ceste abbandonate boccette di smalto per unghie e flaconi di acetone, lime e forbici, pietre pomici, collanine di plastica, capelletti da baseball, sarong da quattro soldi, sete artificiali e altro ciarpame per turisti che poi si esibivano furtivamente a vicenda come trofei da mettere subito al sicuro imboscandoli nel costume da bagno o nel bikini, sopra e sotto; altri si appropriarono dei generi alimentari in forma di pannocchie arrostite che divorarono sempre correndo guardandosi attorno con fare da roditori scaltri, e altri si impossessarono di noci di cocco impossibili a aprirsi in mancanza di un machete e che perciò gettavano avventatamente alle loro spalle abbattendo più di un anziano che arrancava faticosamente al seguito. Lo stesso scoglio antistante all’ala era stato preso d’assalto come una scialuppa nel corso di un naufragio, e ora non si contavano i soggetti sorridenti, maschi e femmine, intenti a farsi selfie con l’ala sullo sfondo. Una cinese piuttosto graziosa, in bikini bianco, velo da sposa bianco e coroncina di plastica argentata in testa si portò nell’acqua bassa a lato dello scoglio, e indicava l’ala dietro di sé protendendo la manina gialla come la stesse proponendo a un pubblico virtuale di possibili acquirenti; il suo sposo in t-shirt nera, pantaloncini neri, e papillon anch’esso nero indossato sul collo nudo ebbe il suo da fare per trovare un metro quadro di spiaggia libera dove posare il tripode e scattare qualche foto con tutta probabilità destinata prima a Facebook, poi al loro album di matrimonio, che in virtù della sciagura si prospettava più unico che raro. Altra folla si avvicinava a perdita d’occhio lungo la falce di luna della spiaggia di Lamai convergendo dalla Spa Samui e oltre, fin su alle propaggini settentrionali del promontorio, e lontani com’erano procedevano addensati in forma di colata di catrame. Altri, più vicini, abbandonarono i lettini maculati, zebrati, leopardati, del Baya, del Lamai House Beach, dell’Eden Plage, del New Nordic, dell’Honest e degli altri stabilimenti alla moda nel cuore della baia e si unirono alla frotta. Non troppo lontano, un tizio in carrozzella con il cappello da cowboy sorse sopra il formicaio delle teste, e lassù venne sostenuto a braccia da quattro portatori che si misero subito al trotto e procedettero sempre così fendendo la folla come un cuneo, mentre lo storpio sventolava il suo cappello, neanche fosse impegnato in un rodeo che l’avrebbe visto vincitore. A un certo punto gettò il sombrero al vento e assunse il cipiglio solenne dell’imperatore romano portato in trionfo dai suoi fedeli veterani. Quindi, agitando un braccio di qua e di là, emulò il gesto di frustare i portatori come un auriga frusta i destrieri, e a forza di dai e di dimenamenti vari, alla fine la biga volante si sbilanciò compromettendo l’equilibrio collettivo, e il Ben-Hur meccanizzato venne giù di testa seguito dalle sue rotelle e tutto, e poi sparì definitivamente alla mia vista.

Macchie oleose già affioravano alla superficie addensandosi attorno alla base dell’ala simili a offerte votive, unguento sacro versato al nero idolo in remissione dei peccati, e immediatamente gli accoliti presero a scattare foto dal sapore psichedelico al carburante galleggiante, e un paio di tizi sullo scoglio si accesero vicendevolmente le sigarette. La titolare del Black Pearl comparve alle mie spalle e dal suo grugno rincagnato urlò alla loro volta di buttarle, visto il pericolo di incendio, e i due eseguirono immediatamente gettando a mare le sigarette, che provvidenzialmente si spensero non appena toccarono la superficie. I più ardimentosi si tuffarono e poi nuotarono vigorosamente in direzione delle fluttuanti iridescenze di kerosene, e stringevano in pugno cellulari waterproof per immortalare la sciagura da vicino. Due ragazzetti raggiunsero la riva con il loro armamentario subacqueo, e in fretta a furia indossarono maschera e pinne, poi presero a nuotare verso la prua sommersa dell’aereo. Raggiunta la posizione, i boccagli sparirono alla vista, e dei due esploratori non si seppe nulla per un po’.

Un essere irsuto e gigantesco si fece avanti sgomitando fino all’estremità della scoglio, puntò l’ala con un dito e urlò Tupolev Tu-160, e lo urlò due o tre volte con crescente orgoglio. Un tizio dall’aria intellettuale gli andò vicino e gli chiese spiegazioni. Il gigante gonfiò il petto e gli mise una mano sulla spalla e poi tuonò di averlo pilotato di persona quell’aereo, e la sua pronuncia dell’inglese era marcatamente russa. Poi disse che si trattava del bombardiere più potente e più veloce del mondo e poi gridò Fuck off America. L’intellettuale lo guardò di sotto in su, poi inspirò e poi strillò Come ti permetti? guardalo, il tuo bombardiere più potente del mondo, e la sua inflessione era inoppugnabilmente newyorkese. Senza una parola, il russo gli mise una mano sulla testa e la ruotò come il tappo di un barattolo incollato al vetro. Quando l’americano gli fu di spalle, il russo lo spinse via con una pedata vigorosa ma accompagnata: quasi gentile, in un’ottica siberiana delle cose. I due ragazzini fecero ritorno dalla loro esplorazione subacquea e raggiunsero l’acqua bassa. Il più grande si portò la maschera alla fronte e rivolgendosi a una coppia di adulti sulla riva disse in italiano che in tutto l’aereo non c’era un finestrino che era uno. Il padre, un biondo bellimbusto dal ciuffo esuberante e con il polso sinistro scintillante di riflessi dorati, disse Gli aerei non hanno finestrini, hanno gli oblò; si chiamano oblò, non finestrini, pirla. Poi guardò la donna che gli stava a fianco – capelli sottili molto chiari, bel faccino da velina saponificatrice, bikini ridottissimo, il resto tutto omogeneizzato nell’uniformità dell’abbronzatura –, il tizio guardò la donna e disse Che cazzo li mandiamo a fare alla Montessori, con quello che ci costa. Guardò l’orologio d’oro che portava al polso, poi guardò il cellulare che teneva nell’altra mano e poi di nuovo l’orologio e disse Rolex di merda, resta indietro quasi due minuti al giorno; dovevi prendermi un Cartier, dovevi, tanto i soldi che spendi per farmi i regali sono sempre miei. La donna disse con voce cinguettante Ragazzi, siete sicuri che non avesse finestrini?

Oblò, cazzo, disse il marito.

Sicurissimi, disse il più piccolo gettando una manciata di sabbia bagnata in faccia all’altro.

Non ha i finestrini neanche davanti? chiese la donna rivolta ai figli. Quelli davanti non sono oblò, sono finestrini, spiegò al marito in un movimento di anche interessante ma poco pertinente.

No, mamma, disse il più grande cacciando sottacqua la testa del fratellino.

Allora è un drone, disse l’uomo, e lo ripeté più volte in un inglese discutibile guardandosi attorno in cerca di consensi al suo genio indiscutibile. Dato che prima dello schianto non si erano visti sedili eiettabili a spasso per il cielo, l’ipotesi del drone trovò, seppure tacitamente, consenso unanime, poiché aveva il pregio di azzerare la questione del possibile decesso dei piloti e dei membri dell’equipaggio, triste eventualità che avrebbe reso meno godibile la scena.

Poi accadde una cosa strana.

 

Brano tratto da Miss Thaimatic, terzo volume della mia Trilogia Siamese.

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