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Beach Republic

Beach Republic

Adam, Dora, Bob figlio di Marley e io eravamo i soli a quel tavolo a non essere alcolisti anonimi. Marley, Marcel, Nicolette, Sabine, detta la Suorina di Ginevra per i suoi modi pieni di vergogna, e Joannes, soprannominato il Vichingo di Copenaghen per via delle origini e della mole conforme, erano i soli non bevitori in tutta la sala. L’atmosfera del pranzo avrebbe dovuto essere festosa data l’occasione, e le sbellicate collettive nel corso del diverbio tra Marcel e la cameriera avrebbero dovuto darne l’evidenza, ma le imminenti partenze di gran parte di noi cadenzavano di silenzi malinconici gli intervalli tra le battute techno che provenivano dall’esterno. L’idea che si respirava era il brivido di una fredda giornata luminosa di settembre. L’idea. In realtà faceva molto caldo.

Il saxofonista che avevo osservato sulla terrazza a mare prima di raggiungere il nostro tavolo all’interno era un africano, alto e curvo e in età avanzata, e sembrava essere invecchiato dentro il suo stesso abito di cotone bianco sporco, gualcito l’uomo dov’era gualcito l’abito, sudati entrambi nei punti più sensibili, un profugo di New Orleans scampato al bombardamento dell’uragano Katrina. Anche nella sala da pranzo quella sensazione seguitava a accompagnare le basi ritmiche, e a niente valeva il lavoro svolto dal sax per dare vita ai martellamenti scanditi dalle macchine, quella malinconia mi perseguitava a ogni nota, breve o sostenuta, rigettandomi nello sconforto. Tantomeno erano di sollievo gli sguardi che di tanto in tanto lanciavo ai commensali pigiati ai tavoli all’intorno. Ragazzine in bikini ridottissimi, pieni di spacchi e di aperture arcane; piercing agli ombelichi, brillantini, anelli e catenelle allusive che si dipartivano dai labbri ombelicali e scendevano inanellandosi fino a sparire dentro gli slip; lacci e lacciuoli e cavigliere e calzari in stile schiava, schiave implicite del sesso prima promesso e poi mai mantenuto per intero, capelli rapati solo su un lato della testa, ciocche variopinte, trecce singole e trecce a due code a significarne la bucolica innocenza di bambine maggiorenni rimaste demoniache; ragazzotti a torso nudo inamidati nelle loro sovrastrutture muscolari portate in evidenza, abbronzati al punto giusto, biscottati, bitostati, tatuati in conformità di pattern tribali di tribù mai esistite, esseri totemici innalzati a gloria e vanto di se stessi, all’esibizione del nulla di cui, tatuati tanto o poco, sotto la pelle erano fatti. Tavoli addossati gli uni agli altri come auto scoperte parcheggiate in un drive in dove di domenica pomeriggio si proietta il sequel tardivo della febbre del sabato sera.

Tornai fuori, sulla gettata di cemento che sovrasta la spiaggia, e stetti lì a guardare e a non guardare le bandiere rosso rubino e i gonfaloni ugualmente rossi, gonfi di vento, del Beach Republic – Ko Samui, Regno di Thailandia –, la Repubblica della Spiaggia con la sua stella marina bianca in campitura rossa in luogo della stella burocratica a patrio emblema delle repubbliche di questo mondo. Guardai il cemento e vidi che era troppo, e poi tornai a guardare le bandiere e guardai pure i fusti delle palme avvolti in drappeggi anch’essi rosso rubino. Poi mi girai e lanciai uno sguardo quasi sorridente al dj e lanciai un altro sguardo, questo apertamente sorridente, al saxofonista. Vidi che dietro i loro occhiali scuri entrambi videro il mio sguardo e lo vidi dal moto impercettibile con cui si fecero più distanti, con cui mi prospettarono la precisa volontà di ignorarmi con ulteriore determinazione. Dopotutto ero un suddito pagante del Beach Republic, io. Per giunta un attempato esemplare maschio, un vecchio smagrito elefante di Dalì già in cammino verso il cimitero dei suoi simili. Al più, pensai, i sorrisi di quei ministri del Beach Republic, di quei semidei pagati profumatamente per fare chiasso tra i gonfaloni rossi, al più i loro denti si sarebbero potuti scoprire all’indirizzo di una di quelle ragazzine possedute dalla pelle levigata e l’ombelico tormentato. Girai i talloni e rientrai al ristorante da un ingresso diverso da quello da cui ero uscito poco prima.

Il soffitto impennato a sesto acuto della sala culminava con un invaso, un’apertura conica da cui si intravedeva uno spicchio di cielo, e l’impressione era che da un momento all’altro quell’imbuto capovolto avrebbe potuto risucchiare le vivande disposte qualche metro più sotto su un interminabile buffet in forma di U. Per un po’ stetti lì a guardare, apparecchiati come salme disposte sui loro letti di ghiaccio dopo un conflitto artico, assediati da guarnizioni vegetali simili a corone funerarie, i branzini e gli white snapper, i salmoni e le triglie, i granchi e i gamberi, gli scampi e gli astici, le vongole e le cozze, i datteri e le ostriche, i sushi e i sashimi. Li fissavo senza appetito pensando cose che avevano a che fare con la ricchezza smodata e cose che avevano a che fare con la povertà assoluta, pensavo agli eccessi sulle ascisse e al caos sulle ordinate, escogitavo algoritmi che mi dessero ragioni plausibili del come e del perché mi trovassi lì, e intanto vedevo – lo vedevo chiaramente –, vedevo quell’imbuto sopra il buffet risucchiare tutto quell’ittico bendidio e spararlo fuori dalla sua bocca come dalla bocca di un obice e darlo in pasto agli insetti volanti, agli uccelli, ai pipistrelli, agli spettri famelici penetrati in questo mondo attraverso una qualche sfilatura nel tessuto della realtà, forse la stessa dalla quale un mattino di novembre ero passato io, ero sceso io calandomi impiccato al cordone ombelicale.

Tornai al tavolo con il piatto mezzo vuoto e presi posto, triste e insoddisfatto, ma perfettamente consapevole, perciò in definitiva contento e appagato di essere triste e insoddisfatto. L’omaggio fatto in società insieme agli altri era nel frattempo stato consegnato a Joannes il Vichingo e ora la sua nuova maschera subacquea sbocciava dalla carta-regalo non del tutto strappata troneggiando sul tavolo nella sua identità di oggetto estraneo al desco, alieno come un disco volante atterrato in un campo di calcio. La osservavo stagliarsi sul candore della tovaglia e la vedevo sprigionare una luce tutta sua, una luce quasi interiore, di gran lunga più vivida delle naturali rifrazioni del vetro temperato e più brillante dei fiammeggianti riflessi dei suoi composti poliuretanici, la luce radiante che assumono le cose fuori contesto, la stessa luce che illumina il ricordo sensoriale di un oggetto che avrebbe dovuto essere lì dove l’avevamo lasciato e che invece, a nostra insaputa, ci è stato sottratto.

Tratto dal romanzo Miss Thaimatic, Terzo Volume della mia Trilogia Siamese.     © 2019 by Giulio D. M. Ranzanici – All Rights Reserved

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