Ai lettori di Lady Baby Love, a chi ha amato Donna Belonga e il gatto, e li ama ancora
1. Lascia che i pesci seppelliscano i loro pesci
Non molti anni dopo che le luminose forze di Cristo si dichiararono formalmente ravvedute di aver bruciato nei secoli antecedenti centinaia di migliaia di donne ree di essere donne, sotto tortura ree confesse di essere streghe, tre anni dopo che nel sud dell’India un illuminato monaco buddista ne accoltellò un altro per aver tradotto in hindi e quindi reso accessibili antichi testi tibetani criptati e secretati, poche settimane dopo che le luminose forze di Maometto ebbero stuprato seviziato macellato violentato decapitato due ragazze scandinave ree di essere ragazze nominalmente appartenenti alle forze luminose di Cristo, mentre le forze luminose ebraiche e le forze luminose islamiche non davano tregua ai reciproci scannamenti di uomini donne bambini dentro e fuori la Striscia di Gaza, Donna Belonga raggiunse le coste di Samui e poi la chiesa nella foresta di Banwrak e la trovò cambiata. L’edificio si stagliava restaurato di recente, fresco di tinteggiatura; l’insegna di McDonald sopra il rosone era stata sostituita con un crocefisso di ferro; il tetto riparato, lo spiovente raddrizzato; l’altare era scomparso dal sagrato. Donna guardò insù. Pantegane con la croce, sempre loro, disse tra i denti. Sputò a terra e entrò in chiesa. Del gatto non c’era traccia né fuori né dentro. Il pavimento era stato ripulito, la navata liberata del ciarpame, il gommone rimosso; l’altare era tornato al suo posto nell’abside; i banchi, ripassati con il flatting, erano allineati l’uno dietro l’altro come bare; ogni cosa emanava un che di lindo, sfavillante, quasi santo, e ai suoi occhi anche di tremendamente ipocrita, di morto. Ebbe un conato, si portò al fonte battesimale e risciacquò la bocca, poi tornò fuori e disse a se stesso Hanno occupato la mia casa, mi hanno defraudato del mio regno, e con le loro benedicenti superstizioni l’hanno maledetto. Pedofili rognosi, al mio caos creativo foriero di vita hanno preferito la putredine della loro compostezza di facciata. Scatarrò e poi sputò sul sagrato una massa grassa. Tanto meglio, disse tra sé, se non saranno gli uomini a trovare me, sarò io a trovare loro. Ripercorse il viale da cui era venuto, svoltò a sinistra e procedette spedito lungo il sentiero per la spiaggia. Dall’acqua affioravano massi imponenti e accanto a uno di quei massi era, molto ingrassato, il gatto. Gli dava le spalle, ma dalla rapidità dei movimenti che eseguivano le zampe anteriori e dai risucchi che arrivavano fin lì, Donna dedusse che era intento a catturare pesci che poi aspirava tutt’interi come li bevesse da una cannuccia.
Complimenti, disse avvicinandosi all’animale. Complimenti vivissimi, e batté sonoramente le mani due o tre volte in un applauso di sarcasmo.
Il gatto girò la testa, soltanto quella, e aveva le orecchie appiattite sul cranio e le pupille dilatate.
Tu, disse in un balbettio monosillabico.
Complimenti, hai fatto buona guardia, proprio una buona guardia, impiastro.
Io, io, disse il gatto.
Tu cosa?
Io… avevo fame.
Capisco. Tanta fame da lasciare la chiesa incustodita così a lungo che le pantegane con la croce hanno avuto il tempo di restaurarla e farla propria.
È che ho cambiato casa.
Ah sì, e dove vivi adesso, di grazia?
Un po’ qui, un po’ là. Sono ramingo, ora. Mi hai lasciato solo.
Solo.
E negletto. Neanche una micina a rincuorarmi.
E i tuoi doveri, povera bestiola?
No, è che…
No è che, cosa? L’ombra di Donna si allungò sul gatto e lo sovrastò e sovrastò anche un tratto di mare in una striscia nera che lo tagliava in due.
Sono arrivati con una coppia di pitbull, uno bianco e uno nero.
Chi?
I preti.
Adesso vanno in giro con i pitbull?
A quanto pare.
Bianche e neri come te?
Non proprio. Io sono bianco e nero senza bisogno di dividermi. Sono un piccolo felino bicolore, loro invece erano due, grandi e grossi, uno bianco, l’altro nero, due assassini patentati. Il gatto impresse alla voce una tonalità cremosa, come se a parlare fosse una mousse. Avrei dovuto farmi mangiare vivo per difendere la chiesa?
Sì, avresti dovuto, sei grasso da far schifo, almeno li avresti sfamati.
Il gatto stette lì un momento cercando di tener ferma la coda.
A parte sfamare loro, disse poi, cosa sarebbe cambiato? Io sarei finito nei loro disgustosi intestini e tu avresti trovato la tua chiesa nelle stesse condizioni in cui l’hai trovata, ti pare? Ora il gatto sembrava ancora senza orecchie, ma le pupille erano un po’ meno dilatate.
Anche questo è vero, disse Donna, ritrasse la sua ombra e la avocò a sé, e l’ombra scomparve alla vista giacché il sole era allo zenit.
E poi sei stato tu, disse il gatto, a insegnarmi che l’eroismo è il gesto estremo degli idioti se non porta con sé salvezza per alcuno. Sarei morto inutilmente e…
Basta così. Ho capito.
Ha capito, disse il gatto rivolto alla sardina che stringeva tra le zampe. Va, sei libera, e la lasciò andare per celebrare il suo riscatto.
Non sprechiamo altro tempo, disse Donna. Lascia che i pesci seppelliscano i loro pesci e seguimi. Ti farò pescatore di uomini.
Preferirei restar qui a pescar pesci. Ho fame.
Bieco materialista, vuoi che ti strappi lo stomaco?
E il gatto lo seguì, grasso e affamato com’era, a testa bassa lo seguì.
Raggiunsero, più tardi, l’Arch Bar sulla spiaggia di Chaweng. Il cielo era azzurro, il mare turchese, la sabbia bianca, le ombre erano di un grigio-ferro quasi solido. Il diorama della Bellezza e della Perfezione in terra. Il gatto ponderò che gli mancava una buona idea su come rovinare tutto, ma quell’idea non gli veniva, non gli veniva niente. Lo sguardo gli cadde sull’orda di giovani lì assiepati, indolenti e sfaccendati, mezzo addormentati sulla spiaggia e sui prendisole. Ragazzi occidentali prevalentemente inglesi, disgustosamente tonici, e ragazze prevalentemente russe e thai. Si perse nella pelle oliata, liscia come sapone delle russe, e constatò che alcune di esse, malauguratamente proprio quelle con i corpi meglio disegnati, con quei nasini esageratamente all’insù, il mento sfuggente e le guance troppo piene gli ricordavano la morfologia di certi tortellini sottratti in epoche lontane alla cucina di una trattoria nel bolognese. Gli venne fame e per distrarsi passò alle thai, i cui corpi minuti, proporzionati, vivacemente posizionati lo fecero pensare a certe divinità minori indù, incontrate in epoche remote, ninfe acquoree dalla pelle azzurra e il sorriso innocente – contrariamente a queste che di azzurro avevano soltanto i tatuaggi (per lo più guglie incise tra le scapole) e di innocente solo un’inesauribile sete di denaro. Si perse poi nel florilegio di piercing ai padiglioni auricolari, alle labbra, al naso, agli ombelichi, e (constatò con la vista a raggi X) alle propaggini estreme di un pugno di clitoridi dalla punta di mirtillo e la guaina color malto. Il suo umore tornò amabile, e dimenticò di darsi pena su come guastare quell’angolo di mondo.
Donna montò sul palco, e il gatto lo seguì, e il primo scacciò l’orchestra come avrebbe scacciato un nugolo di insetti. Quando fu solo, con le sue lunghe dita innervate sfiorò la chioma dell’albero di frangipani che gli stava accanto. Guardò il gatto stirarsi ai suoi piedi, e lo giudicò scandalosamente molle e anche per questo inaffidabile, poi guardò i bagnanti e disse La vedete questa foglia? Lo vedete come vibra? Lo sentite com’è viva? Lo capite come la luce e il vento e la falda d’acqua dolce sottostante ricca di sali minerali la mantengono in vita? Riuscite a sentirlo? Li guardò a uno a uno. I bagnanti ricambiarono il suo sguardo con occhi vuoti.
Ora ditemi, disse Donna, ditemi di quali dei avete bisogno. Ditemi di quante carneficine avete ancora voglia. Se proprio non riuscite a rinunciare ai piani trascendenti, non vi basta la divinità insita nella vita stessa? Non vi basta questo frangipani come causa prima e ultima della sua esistenza, della sua sacralità? Forse che la creatura con la sua vita lunga o breve non è essa stessa un fatto che non necessita di altri fatti per legittimare il suo diritto di cittadinanza a questo mondo? Che senso ha ipotizzare un creatore creatore della creatura se poi non si ipotizza anche un creatore creatore del creatore e poi un creatore creatore del creatore del creatore, e così all’infinito?
Guarda che li confondi, disse il gatto. Sono confuso persino io che sono molto intelligente, si allisciò le vibrisse.
Se proprio non sapete rinunciare alle fiabe, proseguì Donna, avete davvero bisogno della bibbia e del corano, dei veda e dei canoni buddisti e di chissà quali altre pagine imbrattate di scemenze? non vi bastano i fratelli Grimm, non vi basta Disney, non vi basta Omero?
Omero sono io, disse il gatto tirando su le orecchie, dovresti precisarlo. Guarda che adesso li stai stufando.
Donna emise una specie di nitrito e proseguì. Se proprio non volete rinunciare alla violenza, non vi basta la malizia che respirate in famiglia durante il pranzo di natale e le altre feste condannate?
Guarda che sono feste comandate, non condannate, disse il gatto, e sbirciò Donna di sotto insù. Certo, sono i giorni più schifosi dell’anno, però si chiamano così, feste comandate, non condannate.
Non vi basta la malvagità che respirate in famiglia durante il pranzo di natale e le altre feste condannate? tornò a dire Donna.
Uno dei bagnanti diede una manata al suo vicino e disse E questo chi è, e il vicino disse Un pazzo, e un altro disse Rimettete la musica, e un altro disse Vattene! Le thai presenti ridacchiavano senza capire, alcune con la mano alla bocca e altre no, e il gatto le fissava con occhi d’oro e lanciava loro subdoli sorrisi volti a sedurle.
Non vedete che queste ragazze non vi vogliono, disse Donna. Con un movimento panoramico del braccio indicò le thai tutte aggregate tra loro come un convito di formiche, alcune con una birra in mano, alcune con la sigaretta in bocca, alcune con entrambe le cose, certe con un dito nel naso a lustrarsi i turbinati. Voi le disonorate. Voi non siete uomini, ma banche i cui interessi percepiti non corrispondono all’entità dei mutui a perdere erogati. Pagandole quello che le pagate, voi le rapinate. In verità vi dico che quelli di voi che saranno a loro volta da esse rapinati, incontreranno la giustizia che meritano. E voi, seguitò passando al thai. Voi non siete donne, ma costellazioni di dolore. Voi, non la scuola, non l’università, voi siete il supremo magistero per i figli del mondo. Voi che al primo posto mettete le famiglia, al secondo voi stesse, al terzo nessuno. In verità vi dico, questo vi fa onore. Anche il debito verso la famiglia che mai smettete di onorare vi fa onore. Al primo posto innalzate loro, i vostri genitori, poi, soltanto poi, vengono i vostri stessi figli. La gratitudine fattiva per chi vi ha cresciuto mantenuto educato dopo avervi generato è un monito per le moltitudini di figli ingrati assiepati qui davanti e sparsi per il mondo. Il vostro prostituirvi è sacro, il vostro depredare maschi occidentali giusto, la vostra bellezza (il gatto si passò la lingua sulle labbra), la vostra bellezza è lo strumento dell’ascesa e dell’ascesi. Siete ierodule, Prostitute Sacre, sacerdotesse degne di venerazione. Donna sorrise e le ragazze gli sorrisero a loro volta. Ma in verità vi dico che voi siete e restate prostitute. Siete sacre e siete zoccole, siete mignotte della più bell’acqua, e i vostri genitori sono ruffiani, magnaccia della peggior risma che scampano a ufo sulla pelle delle loro figlie.
Si fece un gran silenzio, e nuvole nere sorsero là dove finiva il mare.
Non ti va mai bene nessuno, bisbigliò il gatto. Dovresti accettare il mondo così com’è.
Donna lo guardò. Per i mangiatori di pesce accettare è l’unica scelta, l’unico dovere. Il mio destino è un altro, mi impone di divorarli, gli esseri umani. Una volta digeriti, dal mio ventre usciranno stirpi di donne e uomini degni di questo nome… forse non stirpi, ma qualcuno certamente sì.
Io preferisco i pesci, la carne umana puzza, disse il gatto.
Donna lasciò correre e si volse alle giovani coppie di occidentali lì presenti e disegnando nell’aria spirali e arabeschi con le sue dita ossute, argomentò che giocando il gioco dell’amore, recitando il ruolo degli innamorati, essi ricusavano l’inevitabile annientamento dei loro corpi, la cui vita, come la vita di tutti, non è che un rigurgito tra nulla e nulla, un mero barbaglio tra i bastioni delle tenebre. E mostrando i suoi denti rossi, ponderò che il legame che li univa è una trappola cui gli uomini e le donne non sanno resistere, e che il demone che possedeva ciascuno di loro e tutti quelli come loro e come voi ovunque dislocati li persuadeva a chiamare amore l’ecatombe della libertà – il naufragio della vita stessa. Disse che erano fatti della materia di cui sono fatti i sogni e poi disse che erano fatti della materia di cui sono fatti i soldi. E disse che erano degli idioti che si dicevano pazzi per pura vanità.
Uno degli astanti, un po’ meno ubriaco degli altri, disse Come ti permetti, chi sei tu per giudicare?
Io sono il santo, disse Donna, le cui stagioni sono innumerevoli. Nato consapevole tanto da sapere che prima non c’ero e poi ero lì, io completo la creazione portando a compimento la fine della Storia. Ogni notte mi corico come morto e all’alba rinasco ogni giorno. Io sono Donna Belonga, I Don’t Belong, io non appartengo, io sono l’abitante dei confini estremi del mondo. Mi corico morto. Rinasco. Ogni giorno sono nuovo a me stesso. Rinnovo la mia gioventù di giorno in giorno. Io sono dio, e questo è tutto.
Vaffanculo scemo, disse un biondino mezzo abbracciato a una biondina tatuata come una porcellana cinese, e l’inflessione del ragazzo era marcatamente londinese.
Donna chiuse gli occhi e si raccolse in sé, poi si protese sull’inglese e le membra gli si allungarono come le spire di un pitone, e quando la sua testa fu sopra quella del ragazzo spalancò la bocca e anche quella si dilatò smisuratamente, e con tutti quei denti rossi in entrambe le arcate disegnava l’imboccatura stessa dell’inferno ornata delle sue stalattiti e stalagmiti lorde di sangue. Il ragazzo prese a tremare, e anche la ragazza tremava tutta, tanto che il gatto pensò che le cineserie incise sulla sua pelle sarebbero andate in frantumi.
Chiedi perdono, disse Donna.
I’m sorry, disse quello con voce rotta.
Non basta, sibilò Donna. Lei si chiama Evelyn, giusto? disse sempre in quella posizione, il busto curvo come un nero arcobaleno. Come un ponte abominevole gettato tra la terra e gli inferi, tra il palco e la testa del ragazzo sempre sotto minaccia delle fauci. Rispondi. Si chiama Evelyn?
Sì sì, Evelyn. Come fai a saperlo?
Io so tutto.
Lui sa tutto, lo posso confermare, disse il gatto mettendosi in piedi, ma nessuno lo sentì o volle sentirlo.
Evelyn, mia cara, disse Donna, perché non riveli al tuo ragazzo ciò che fai segretamente il mercoledì sera quando siete a Londra.
La ragazza di nome Evelyn arrossì, tutti lo videro chiaramente.
Cosa fai che io non so? le chiese il ragazzo.
Porta pazienza, disse il gatto che nel frattempo si era portato sulla testa di Donna camminandogli sulla schiena. Porta pazienza, è normale, è umano, prima o poi tradiscono tutti, se ci pensi non c’è niente di male. Certo, Evelyn si fa pagare profumatamente, ma nel suo caso non saprei dire se la cosa costituisca un’aggravante o un’attenuante.
Quando sentì il gatto parlare, Evelyn svenne e anche diverse altre e altri lì attorno persero in sensi. Ma non le thai, abituate a tutto, e non il ragazzo che aveva aggredito Donna: la paura, l’adrenalina lo tenevano vigile.
Il tuo gatto parla? chiese a Donna.
Vola anche, se è per quello. Comunque non è mio. Ma adesso parliamo di te. Sei quasi uomo, è ora che tu sappia la verità. I mercoledì sera la tua Evelyn non va a cena con le amiche a Covent Garden come ti racconta lei.
Ma lei veramente, balbettò il ragazzo.
Comunque non va dove dice, disse il gatto.
Prende invece la direzione opposta e si porta a Westminster, disse Donna.
Se non proprio a Westminster, disse il gatto, comunque nella direzione opposta a quella che dice a te.
Si porta a Westminster, riprese Donna, dove le piace visitare una coppia di anziani benestanti e dissoluti.
Mi corre l’obbligo di aggiungere, disse il gatto sempre abbarbicato sulla testa del santo. Mi corre l’obbligo di aggiungere che in fin fine la colpa è tua, ragazzo. Lei studia ancora, lo sento dall’odore, tu invece puzzi come uno che lavora già, tu guadagni, cocco, eppure ti rifiuti di regalarle l’iPhone X. Certo, personalmente preferisco Samsung: le foto riescono meglio, sono più definite e hanno colori più vividi. D’altro canto, lo sanno anche i sassi che gran parte dei componenti dell’iPhone sono prodotti proprio da Samsung, perciò anche lei, poveretta, ha le sue ragioni per volere l’iPhone. Fissò la sua vittima con occhi verdi, freddi. E pur di avere il telefono dei suoi sogni, giustamente la bella Evelyn si dà da fare come può. Non è difficile immaginare cosa farà in quella camera da letto. O la farà in cucina? Vedo la scena. Tirano un po’ di coca, un bel po’ di coca, roba buona, boliviana. Poi lei si mette nuda nudenta e fa qualche piroetta al ritmo di lap-dance. Poi si ferma sui due piedi e infila la testa nel frigorifero mentre il vegliardo le inserisce negli orifizi deputati prodottini di ogni risma che lei stessa sceglie dai ripiani: zucchine e carote (non lessate), melanzane anch’esse crude, coscette di pollo, stinchi di maiale, pezzi di salame, tubetti di maionese, e altre cosucce scelte dal vecchio: manici di attrezzi di cucina, colli di bottiglia, bustine di tè da insaporire, chissà cos’altro. Poi la bella Evelyn si gira, si mette a pecora e glielo prende in bocca, quell’affare, un peduncolo molle e rinsecchito a un tempo, un ossimoro, un’aporia di nerchia, degna di disquisizioni filosofiche di matrice stoica. Nel frattempo la vecchia ha cominciato a schiaffeggiarla sulla nuca con lo scacciamosche e a frustarle la schiena con il suo reggiseno performato. Il gatto sorrise. Però la devi comprendere, devi essere indulgente, non devi averne a male. Pensaci. In fine dei conti che male c’è? Una marchettina settimanale per gratificarsi con un oggetto fuori della sua portata (ma non della tua, bastardo!). Una marchettina, una sveltina, che male c’è, che male c’è?
Il ragazzo si fece paonazzo, e fu lì lì per colpire il gatto, ma Donna gli bloccò la mano. Dimmi, disse stringendogli il polso, la ami ancora? O invece stai cominciando a odiarla? Pensaci. Darla via, prostituirsi per un telefono. Né più né meno come queste sgualdrine thai.
Che però giustamente preferiscono Samsung, disse il gatto. Non omettere che lo fanno anche per i tatuaggi… l’avrà fatto per questo anche la sua Evelyn… andare in giro decorata come un vasetto Ming?
Ora Mark, disse Donna, ti chiami così vero? (il ragazzo di nome Mark annuì ammutolito), Mark, caro il mio Mark, la vedi o non la vedi l’inconsistenza di ciò che tre minuti fa chiamavi amore, che giuravi fosse amore.
Lo vedi che siamo qui per aiutarti, disse il gatto.
Lo vedi il fumo negli occhi di cui sono fatti i sentimenti umani? disse Donna ritraendosi un po’ alla volta, spira dopo spira, e il gatto procedeva a ritroso su quella specie di ponte che gli si ritirava sotto le zampe e svaniva a ogni passo.
Alla fine il santo si ricompose, riprese le sue sembianze, e dall’alto del palco li dominava tutti. Ma era chiaro che si trattava di un pubblico estemporaneo, passeggero. Transeunte, avrebbe detto il Missionario. Per i suoi fini, necessitava di elementi stabili, di sodali duraturi. Scacciò i pensieri con un movimento nervoso delle mano e le sue unghie strapparono un fazzoletto di cielo che ondeggiò a terra come una foglia azzurra. Un Oh collettivo si levò dagli astanti.
Il poco o niente che sappiamo della morte, disse, potrebbe illuminare la nostra conoscenza della vita. L’esistenza umana è resistenza, a meno che non vi sia la resa, concetto che approfondirò in futuro. Per adesso vi basti sapere che Mark resiste al tradimento di Evelyn. Purtroppo non esiste un referente o riferimento universale alla resa, perché è solo in relazione a chi si appresta a compierla che si cristallizza la specificazione che le è propria (Mark dovrebbe arrendersi al fatto che Evelyn è troia.). Il collasso della funzione d’onda è rapsodico e prettamente individuale, e non può essere altrimenti. Questa è la sola immortalità cui si possa aspirare finché si vive questa vita. L’aldilà è una frottola che non compete alla mia giurisdizione. L’aldilà è la promessa tradita per antonomasia che viene fatta agli umanoidi che vivono di paura dentro la paura. Ecco perché vi dichiarate cristiani o buddisti o musulmani, e via dicendo. Avete paura. Rassicuratevi. Il dio dell’inferno non è un dio paziente, non vi attenderà in un antro fiammeggiante colmo di lacrime e stridore di denti. Il dio che divora è già dentro di voi sotto le mentite spoglie di nomi e identità e stati emozionali che conoscete bene e che vi risucchiano la vita prima ancora che l’abbiate persa. Se così non fosse, la vostra corsa verso l’annientamento sarebbe una corsa felice. La vostra importanza personale, uno dei mille nomi con cui chiamate la paura, contribuisce alla vostra resistenza spingendovi compulsivamente a lasciare un segno. Un’opera d’arte, la firma di un trattato, la carriera, la gloria di un giorno, l’affetto nel cuore di chi vi ama o dice di farlo, l’acquisto di un auto nuova o di una nuova amante. O un selfie. Tutto è vanità. Prima o poi ogni cosa sarà avocata all’oblio, e di voi e di ciò che vi circonda non resterà traccia nemmeno negli atomi della vostra stessa polvere. Donna accennò un inchino, ma non era chiaro se fosse indirizzato al pubblico, a se stesso per le parole proferite, o entrambe le cose.
Ehi voi! disse poi all’insegna dei musicisti ancora lì ai piedi del palco a naso insù. È il vostro turno adesso. Consegnate il vostro cachet al gatto e tornate su, io ho finito. Forza, datevi una mossa, alé alé, camminare! E fateli ballare, questi storditi incapaci di ascoltare. I musicisti consegnarono l’incasso al gatto e rimontarono sul palco senza fiatare; solo il saxofonista borbottò qualcosa di sfiatato e poi salì la scaletta a testa bassa dietro agli altri, anch’essi a testa bassa come lui.
Gran troia quella Evelyn, disse il gatto quando si furono allontanati.
Perché, disse Donna e poi sorrise.
Ti sei inventato tutto?
Ovvio, tranne i nomi.
Quelli li ho visti anch’io. Tatuati l’uno all’interno del polso dell’altra e viceversa.
Proprio un idiota quel Mark!
Perché l’hai ingannato?
Ho il dovere morale di inventarmi narrazioni, di creare esempi concreti per far loro abbracciare più profonde verità.
Quali verità?
Che i sentimenti umani sono instabili, sono volatili. Che le persone credono in ciò in cui vogliono credere.
E che prima o poi tutti tradiscono tutti. Mi sa che quella Evelyn lo cornifica davvero, hai visto com’è arrossita? Ho idea sia mignotta pure lei.
Ne conosci una che non lo sia.
Non lo vogliono accettare. Soprattutto i maschi. Mi domando perché, disse il gatto e poi sorrise.
Donna gli sorrise a sua volta. Sei stato bravo a tenermi la parte.
Il gatto guardò a terra con aria sconsolata.
Che c’è, disse Donna. Per una volta che ti faccio un complimento.
Il gatto non disse nulla.
Si può sapere che ti è preso? Disse Donna.
Triste destino, triste destino, mormorò il gatto.
Quale destino?
Il mio, da un occhio del gatto spuntò una lacrima.
Che ha di triste il tuo destino?
Il fratello maggiore costretto a seguire le orme del minore.
Devi accettarlo. Il mondo va accettato così com’è. Parole tue.
Il mantello del gatto ebbe un fremito, il pelame si arruffò, durò un istante. Poi tornò liscio come prima, e l’animale cambiò discorso.
Hai fatto un bel sermoncino oggi.
Donna non disse nulla.
Proprio un bel sermoncino.
Ma… disse Donna.
Potrei sapere perché hai dato delle mignotte a quelle povere thai?
Perché lo sono. O hai problemi con la verità, mignatta?
E cosa dovrebbero fare, poverette: hanno a carico genitori e figli e figlie e zii e nonni e famiglie sterminate. Cosa dovrebbero fare?
Lavorare.
Lavorare?
Sì, almeno quando vogliono togliersi gli sfizi.
Dici? Comunque, complimenti, proprio un bel sermone.
L’hai già detto due volte.
Registri rapsodicamente profetici, stilemi qua e là ridondanti, però un predicozzo convincente, tutto sommato.
Ma…
Un po’ fuori luogo.
Geograficamente parlando?
Geograficamente e antropologicamente.
Spiegati.
Questi vengono qui per divertirsi e tu gli parli di piani trascendenti.
Il mio divertimento sta nel riorganizzare i pensieri, nel creare nuovi paradigmi spirituali. Io sono lo strumento evolutivo più potente dell’universo, vorrei la smettessero di essere pensati dai loro stessi pensieri e, peggio, dai pensieri altrui; vorrei imparassero a pensare autonomamente; voglio che facciano del pensiero umano se non un’arte, quantomeno una tecnologia vicina all’uomo.
Perdona, ma forse, dico forse, non vengono qui per pensare o per evolvere, forse hanno un’idea del divertimento diversa dalla tua.
Per esempio?
Spassarsela, fottersi le thai. Bere, drogarsi, il gatto sforbiciò le zampe posteriori in un moto di felicità ballonzolante.
Per questo c’era la chiesa, ma qualcuno non l’ha difesa quando avrebbe dovuto. L’ombra di Donna coprì una fetta di spiaggia e oscurò le aree illuminate dal sole e rabbuiò le zone già in ombra, e le orecchie del gatto si aprirono come alucce.
Il perbenismo di quel pavimento lindo, senza un mozzicone, una bottiglia, una siringa sporca. Mi hai deluso, disse Donna.
Pensa positivo, il gatto accese gli occhi come fari.
Non dire idiozie. Pensare è un’attività che non ha nulla a che vedere con gli ottimismi stereotipati in vendita su Amazon.
Allora pensa a questo. Quando abitavamo la chiesa, come lo attiravi il tuo pubblico?
Con l’originalità dei miei monologhi. Con le prodezze dei miei effetti speciali.
Naaa, con la promessa di esibire la vergine laotiana.
Che non era vergine, non era donna, non era laotiana.
Esatto, è proprio questo il punto, li hai fregati. Continuando a camminare, il gatto si mise sulle zampe posteriori. Cinse Donna come un amico di vecchia data, ma alla coscia, poiché il fianco era più su di quasi un metro. Te lo dico da fratello maggiore, disse. Se vuoi fregarli un’altra volta devi escogitare truffette alla loro portata, devi farti piccolo come loro, stupido come loro. Soltanto in seconda battuta potrai somministrargli i tuoi raggiri spirituali. La pesca mi ha insegnato molto… e poi io non dispongo delle tue scorciatoie.
Quali scorciatoie?
I miracoli.
Quali miracoli?
Ti davano tutti per morto laggiù in Italia.
Tutti chi?
Io e gli altri nove.
Siamo tredici.
Non dodici?
Tredici, comunque tu e gli altri nove fate dieci, non dodici.
Non ho contato te. Ti davamo per morto.
Allora fa undici.
Ah sì? Non sono versato in matematica, non è una novità. Ma alla fine quanti siamo, undici, dodici o tredici?
Tredici, tornò a dire Donna.
Allora Erica è una di noi, avevi ragione.
Io ho sempre ragione. Voleva dissolversi insieme a me.
E invece.
È rimasta incinta.
Di te?
Di me, salvo prova contraria, guardò il gatto come volesse bruciarlo vivo. Il gatto fece finta di niente.
E tu? disse poi.
Mi sono dato.
Hai fatto bene. Mai assumersi quel genere di responsabilità, ti guastano la vita. Tanto più che magari il padre non sei…
Basta così.
Comunque hai fatto bene.
No, ho fatto male. La farò venire qui. Ci aiuterà.
Immagino. Sai come ti sarà riconoscente per averla abbandonata al suo destino. Tutta pregna in solitario, poveretta.
Mi inventerò qualcosa. Le dirò che volevo metterla alla prova.
Il gatto non disse nulla, ma da come agitava la coda si capiva che pensava cose tremende sul destino dei maschi che si provano a raggirare le femmine, e si capiva anche che pensava per esperienza personale, non per sentito dire.
2. La nana
Un giorno Donna e il gatto si imbatterono in una nana che veniva loro incontro sul sentiero che taglia la foresta a monte del tempio di Lamai.
Sembra di non incontrarla mai, disse il gatto. Noi camminiamo camminiamo, lei avanza ma resta sempre piccola.
Non così piccola, disse Donna, e in tre falcate fu su di lei. Questo via, disse, strappandole il crocefisso che portava al collo.
La nana disse No, ma il crocefisso era già sparito nella vegetazione. Perché l’hai fatto? disse.
Offende la sacralità della vita umana, disse Donna.
È vero disse il gatto, dice così a tutti.
Lui parla? disse la nana, sgranando gli occhi.
Anche troppo, disse Donna
Vuoi sapere cosa dice sempre? disse il gatto. Ormai lo so a memoria. Dice Trovo blasfemo il crocefisso ovunque lo si metta, scuole, chiese, ospedali, tribunali, poste, istituzioni varie o appeso al collo delle persone. Un cadavere sanguinolento inchiodato a una croce offende la sacralità della vita umana.
La nana ascoltò a occhi sbarrati, erano azzurri e un po’ sporgenti, e al gatto piacevano tanto che ripeté con voce stentorea ciò che aveva appena detto. Prima che avesse finito, la nana era caduta a terra svenuta. Donna la raccolse, se la mise in spalla e disse Eccola qui, la nostra nuova attrazione.
La vuoi lanciare? disse il gatto.
Donna stette lì per un istante.
Forse esibire, disse poi.
Tutta nuda?
Ancora non so. Ci voglio riflettere.
Sono curioso, disse il gatto.
Anche gli uomini lo sono. Verranno a frotte per vederla.
E Erica.
Non la farò venire. Ho visto come agitavi la coda, cosa credi?
E il bambino?
Prima o poi lo incontrerò.
E i tuoi doveri di padre?
Pensa ai tuoi di doveri, citrullo. Difendere la chiesa…
Non me l’hai ancora perdonata?
Gli umani chiamano perdono ciò che raccontano di provare quando l’odio gli viene a noia. Tranquillo, io non ti odio e non ti perdono.
Ma il bambino?
Erica se la caverà.
Ne farai una ragazza-madre?
Ragazza-madre… ma come ti è venuta? Se la caverà benissimo. È più forte di tutti noi messi insieme.
La tredicesima colonna?
La prima, a sentir lei. La più antica. Ha più di settecentomila anni, dice.
Ma ne dimostra trenta, giusto?
Venti. Anche qualcosina meno, mentì Donna per farsi bello.
Il gatto si passò la lingua sul labbro superiore. Stette lì a rimuginare per un po’, poi disse E il bambino?
Cosa?
Sarà un maschietto o una femminuccia?
Che ne so. Ma come diavolo parli?
Come l’animo poetico che sono. Chi ha scritto l’Iliade e l’Odissea? Chi l’ha scritto, L’ecclesiaste?
Be’, ti sei deteriorato. Maschietto, femminuccia: ti esprimi come una lettrice di romanzetti rosa.
È che sono un tipo sensibile, i neonati mi fanno palpitare il cuoricino, il gatto strizzò gli occhi, poi li dilatò in modo abnorme. E quindi il piccolo…
Hai finito?
Sarà bello come te o come lei?
Mi prendi per il culo?
No no, disse il gatto, per niente. Lo sai anche tu di essere un bell’uomo. Certo, hai la testa un po’ troppo piccola per essere alto come un cammello, hai la pelle troppo scura e le spalle spioventi a collo di bottiglia, e i denti tutti rossi fanno un po’ impressione, e quelle dita a chela d’astice… ma tutto sommato sei un bell’uomo, lo sai benissimo.
Hai finito? Speriamo somigli a sua madre.
Quel gran pezzo di topa. Meno di vent’anni…
Cammina. Ma quanto pesa sta qua.
Perché è tozza.
In che senso?
Nel senso di tozza. Questione di peso specifico.
Non eri un disastro in matematica?
Questa è fisica, mio caro.
Chiudi il becco. Devo riflettere.
Si misero, più tardi, al riparo di un albero di tek. Donna adagiò a terra la nana ancora esanime, il gatto la fiutò tra le gambe.
Questa non puzza, disse.
Ah, no? Disse Donna.
No, sa di pesce.
Donna fissò una palma da cocco lì vicina e dopo un istante tre noci vennero giù facendo toc e poi rotolarono ai loro piedi.
Sai aprirle? disse al gatto.
Il gatto si mise in stazione eretta, afferrò una noce con le zampe anteriori e fece per fracassarla sulla testa della nana.
Se la rompi l’acqua andrà persa, disse il santo. E anche la nana.
Voglio soltanto svegliarla, disse il gatto, sono sicuro che lei sa come aprirle.
E per svegliarla le vuoi sbattere una noce di cocco in testa?
Non in testa. Sulla fronte. È la parte più dura del cranio, non lo sapevi?
Io so tutto. Anatomia Uno.
Però questa qua, la fronte, ce l’ha bella sporgente. Potrei usarla a mo’ di cuneo. La nana non andrebbe persa.
Ma l’acqua sì. Metodologie di risveglio alternative?
Graffiarle gli occhi?
Chiamarla per nome, no?
Come si chiama?
Non lo so, disse Donna, poi si morse la lingua, ma la frittata era fatta.
Il gatto non disse nulla, si limitò a guardarlo con sufficienza. Lo fissò a lungo compiacendosi della vista del viso del mistificatore, del santo, dell’onnisciente che per una volta non onniscieva avvampare come quello di un’educanda palpeggiata. Quando si sentì sufficientemente compiaciuto, portò il muso a un dito dall’orecchio sinistro della nana e urlò con quanto fiato aveva in gola Nana! Nana! Nanetta!
Quella strabuzzò gli occhi, vide il gatto che ancora urlava, e li richiuse.
Apri gli occhi, disse il gatto, lo so benissimo che sei sveglia, apri gli occhi o te li apro io con gli artigli.
La nana aprì gli occhi. Disse Chi siete? Cosa volete? Non sono che una povera raccoglitrice di funghi di pianura, cosa volete da me? Volete i miei funghi, e frugò nelle sue misere vesti e tirò fuori una manciata di chiodini, o così sembravano. Tieni, disse protendendo la mano a Donna.
Non li voglio i tuoi funghi, voglio che apri quelle noci, disse lui.
Le noci, disse lei. Prima il tuo gatto voleva farmi aprire gli occhi, ora tu vuoi che apra le noci. Mi domando cosa mi chiederete di aprire da qui a un minuto.
Le gambe? disse il gatto.
La nana si mise in piedi e dalla veste trasse un machete e con quattro o cinque colpi ben assestati intagliò una specie di coperchio sulla sommità di ciascuna noce.
Donna e il gatto aprirono il lembo e bevvero a sazietà, e così fece anche lei.
Quando si fu dissetato, il gatto disse Ho tanta fame che mi mangerei un pitbull, e disse l’intera frase in un rutto solo.
La nana disse lo stesso, anche lei in un rutto solo.
Donna trasse di tasca due sardine essiccate e le moltiplicò, la nana chiese del pane, ma il gatto obiettò che il pane di Donna faceva schifo, così mangiarono solo sardine e poi dormirono. Sotto l’albero di tek l’uomo nero e lungo dai poteri divini, il gatto bicolore voluttuoso e cinico, e la nana dalle vesti piene di sorprese dormirono fino a sera, e per tutto il tempo le creature del sottobosco, insetti e insettivori, e le altre più grandi abitatrici dei piani intermedi della foresta non li disturbarono. Solo un serpente, un sette passi verde smeraldo, osò strisciare in prossimità del trio ma quando vide l’occhio del gatto socchiuso e giallo che lo seguiva ondivago, ripiegò e svanì zizzagando via velocemente.
Si svegliarono che era notte fonda. La nana disse Mio marito.
Cielo, suo marito! disse il gatto.
Tuo marito cosa? disse Donna.
Nano pure lui? disse il gatto.
Sarà in pena per me, disse la donna.
No no, tranquilla, disse il gatto, si sarà già consolato. Lascialo dire a me che i maschietti li conosco.
La nana si frugò nelle tasche. Oddio, il telefono, il mio telefono, ho perso il telefono, strillava.
Era un Samsung o un’iPhone? disse il gatto.
Prestami il tuo, disse lei rivolta a Donna, lo voglio avvertire.
Mai avuto un telefono in vita mia, disse Donna.
Nemmeno io, disse il gatto. Anche se quasi quasi un Samsung…
Dove state di casa, disse Donna.
Oltre quel monte, disse lei e puntò l’indice nell’oscurità, e al gatto non sfuggì quanto era tozzo.
Donna bisbigliò qualcosa nell’orecchio del gatto. Alla fine il gatto disse Si può fare ma non come una volta.
Donna afferrò la nana per la vita e il gatto si librò sopra di loro porgendo la coda. Donna la afferrò e si alzarono da terra lentamente. Si alzarono di qualche metro, poi di qualche metro ancora finché superarono le chiome delle palme ma non quelle degli alberi di tek.
Non puoi salire un po’ di più? disse Donna.
Di più di così è impossibile, disse il gatto. Pesa troppo, sembra di piombo, è per via del peso specifico, te l’ho detto.
Procediamo, disse Donna.
Impossibile, disse il gatto.
Come impossibile?
Impossibile. Aggettivo. Non consentito entro o oltre i limiti della normalità, che non può compiersi né attuarsi. Chiaro adesso?
La nana si volse a Donna, disse Vola?
Il gatto disse Volavo, ora so soltanto levitare.
Donna disse Diamoci una mossa.
Agitala, disse il gatto.
Come? disse Donna.
Se vuoi che ci muoviamo la devi agitare.
Cosa, cosa devo agitare?
Lei, la nana, la devi sventolare. Devi creare energia eolica. Oppure soffia. Al momento non disponiamo di altri propulsori.
Con la mano libera Donna afferrò le caviglie della nana e la sventolò sgarbatamente dietro di sé. Il convoglio sbandò nell’aria. La nana si mise a urlare.
Devi eseguire movimenti fluidi. Come remassi, disse il gatto. Pensa a un gondoliere innamorato.
Donna grugnì, poi fece dondolare la nana con garbo, e finalmente il convoglio prese a avanzare, sempre con la nana che gridava.
Continua così, disse il gatto ignorando le urla.
Via via che prendevano velocità, la nana gridava sempre più forte. Donna trasse di tasca una pallina delle sue, gliela cacciò in bocca e la costrinse a inghiottirla. Poco dopo la nana intonò la melodia di Let it be, e il gatto disse Però, che voce. Proseguirono sempre così, acquistando velocità progressivamente, assecondando la china di un’alta montagna con Donna che ammoniva il gatto sul pericolo rappresentato dagli alberi di tek. Sono più alti di noi, diceva. Ci vedo anche di notte, io, diceva il gatto. Let it be, let it be, canticchiava la nana.
Illuminato da otto led azzurri e con il flash sparato negli occhi del gatto, li sfiorò un drone da diporto teleguidato a terra da un barcollante ragazzotto siberiano, il quale, quella stessa notte, postò il video su YouTube, ma il video venne rimosso poche ore dopo, chi dice dalla CIA, chi dalla NASA, chi dall’FSB (già KGB), chi da un hacker che si assunse la paternità del video per fini ignobili ignoti al mondo. Quello che è certo è che fu un puro miracolo se il gatto, momentaneamente accecato, riuscì a evitare sul filo di lana l’impatto con i rami più alti dell’ennesimo albero di tek.
Non puoi andare più forte, disse Donna poco dopo. Quel coso mi ha innervosito.
No, disse il gatto, siamo in salita.
Ma se stiamo volando, disse Donna. Non ci sono salite e discese quando uno si stacca da terra.
Sbagli, disse il gatto. Per due motivi. Primo, tecnicamente non stiamo volando: io non volo, levito, mi libro. Veleggio, nell’aria galleggio.
Come un pallone gonfiato, disse Donna.
Come una maestosa mongolfiera. Come uno Zeppelin pieno di gas nobili. Molto nobili, per la precisione. Secondo motivo, potresti affermare che un aereo in decollo non sta salendo e che lo stesso aereo non sta scendendo quando è in fase d’atterraggio? Se salita e discesa non ti piacciono e vuoi fare bella figura, puoi sempre dire Ascendere e Discendere.
Senza proferire parola, Donna prese a sbatacchiare la nana con inusitata ferocia, tanto che quella, benché intontita dalla droga, la piantò lì con Let it be e attaccò il ritornello di You really got me. Di tanto in tanto faceva tum tum a scandire il tempo delle percussioni che in quel brano sono piuttosto vivaci, e sbandando di qua e di là nel cielo nero l’intero convoglio teneva il ritmo o così sembrava.
Procedettero sempre ascendendo, sempre scarrocciando lungo la china del monte, e il gatto per meglio focalizzarsi sulla guida del convoglio, ripeteva mentalmente certi versi suoi, dell’Ecclesiaste, e pensava a come arricchire il suo mistico capolavoro. Ripeteva tra sé C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare, un tempo per uccidere e un tempo per guarire. Ripeté quei versi senza posa finché ponderò che in quel modo non avrebbe cavato un ragno dal buco e gli sovvenne che è dal reame del reale, non dall’immaginazione immaginata da chi non ha immaginazione, ma dal reame del reale che dal ventre dei poeti sgorgano le cose migliori, e tornò a sé, e si concentrò sul tempo presente, sull’azione, e il verbo e il compimento, finché disse con piglio sicuro, a voce altisonante C’è un tempo per ascendere e un tempo per discendere, un tempo per sorgere e un tempo per tramontare, un tempo per cadere e un tempo per risorgere, e giurò a se stesso che questi versi sarebbero stati impressi su tutte le copie dell’Ecclesiaste in circolazione per il mondo, nei depositi, dai librai, o già nelle mani dei lettori. Guardò di sotto, guardò il fratello minore: lui avrebbe compiuto il miracolo dell’inchiostrazione universale. Lo guardò preso com’era a sbatacchiare la nana, e avvertiva correnti elettriche in quella testa superiore, plausibilmente lampi di idee su come meglio sfruttare la donnina. Ponderò che lei, la nana centrifugata, pensieri non ne aveva, se non quelli di un Minipimer a corrente intossicata. Seguitava a cantare You really got me, di cui evidentemente ricordava solo il ritornello, che ora ripeteva a squarciagola, e alla vista del gatto non sfuggivano gli occhi dei babbuini abbarbicati sugli alberi sotto di loro, svegliati di soprassalto nel cuore della notte dalle grida della nana, occhi che si aprivano uno alla volta, già attenti, vigili e gialli, e li guardava puntarsi nel buio, in alto, nella loro direzione, intenti a frugare l’oscurità per scorgere la scimmia urlante venuta dallo spazio.
Sempre sbattendo la nana come un cencio, Donna rimuginava tra sé e sé. Tutto questo non ha senso, io sono pazzo, sono la saetta scagliata bellamente contro la roccia, sono la follia impazzita. Tutto questo non ha senso… eppure, diceva il cuore del suo ventre, eppure se la destinazione è il buon senso o un senso o un fine superiore, quale potrebbe essere la stazione di partenza se non la follia stessa che nel tragitto acquista via via consapevolezza di sé e quando arriva è già saggezza? Non è stata sempre questa la mia avanzata nella lotta per l’evoluzione, nella mia lotta per la resa all’evoluzione? E chi ha detto che una volta conquistata la saggezza non si debba tornare di tanto in tanto a visitare con devozione filiale la follia che l’ha partorita?
Raggiunsero, poco dopo, lo spartiacque, lo superarono e iniziarono a scendere lungo la china di palmizi che si distende fino all’abitato marino di Bang Por, e acquistando velocità, il gatto cinguettava C’è un tempo per ascendere e un tempo per discendere, un tempo per sorgere e un tempo per tramontare, un tempo per cadere e un tempo per risorgere, e a colpi di reni risaputi imprimeva al convoglio più velocità perché voleva assaporarne il brivido. Donna mise fine allo sbatacchiamento della nana.
Il gatto disse Perché ti sei fermato? Cominciavo a prenderci gusto, cominciavo.
Donna disse Dove abiti, citrulla?
Laggiù disse la nana, indicando una luce non molto più in là.
Su quel pianoro? disse Donna.
Tecnicamente è un altopiano, disse il gatto.
Piantala, e preparati all’atterraggio.
Si informano i signori passeggeri che è iniziata la discesa sull’altopiano della nana, disse il gatto con voce metallica. L’atterraggio è previsto tra tre minuti circa. Invitiamo i signori passeggeri a spegnere i dispositivi elettronici, a allacciare le cinture e a tenerle allacciate fino allo spegnimento dei motori. Fumare è vietato da una vita, quindi già lo sapete.
Piantala, idiota, e facci scendere.
Sempre caro mi fu quest’ermo colle e sempre grato è il fratellino mio, disse il gatto e mollò una scorreggia tremenda, un ruggito anale che fece improvvisamente perdere quota al convoglio. Di colpo, si abbassarono di una dozzina di metri.
Gas nobili, disse Donna.
Molto nobili, disse il gatto, mi danno modo di calibrare la quota del velivolo a beneficio di noi tutti.
[Continua]
© 2019 by Giulio D.M. Ranzanici – All Rights Reserved
3 Commenti
Oh Giulio, lettura che rapisce, intensa profondissima nella sua vacuità. Profetica e oscurante per le chincaglerie che sovrastano le menti. Molto probabilmente di disturbo per gli assonnati che continueranno a dormire dal primo rigo… In molte parti mi identifico in entrambi e credo sia evidente la connessione con l’aldilà e l’aldiquà che rappresenti finemente. Tifo per le tue muse Ispiratrici! ❤️
Oh Giulio, lettura che rapisce, intensa profondissima nella sua vacuità. Profetica e oscurante per le chincaglerie che sovrastano le menti. Molto probabilmente di disturbo per gli assonnati che continueranno a dormire dal primo rigo… In molte parti mi identifico in entrambi e credo sia evidente la connessione con l’aldilà e l’aldiquà che rappresenti finemente. Tifo per le tue muse Ispiratrici! ❤️
Bentornati a Donna e al gatto, irriverenti, cinici, dissacranti e politicamente scorretti. A volte disturbanti, come spesso sono le verità scomode, ma sempre molto divertenti.
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