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Le conseguenze dell’odio

Le conseguenze dell’odio

Li vidi sorgere a dozzine dalla sommità della collina come un’orda barbarica partorita da una mente schizofrenica e venire giù lungo la discesa sferragliando sulle loro cavalcature, numerose, lucenti da abbagliare. Una torma di motociclisti coperti di pelli scuoiate appartenute a mammiferi domestici o a esseri umani. Uno indossava a mo’ di elmo la parte superiore del cranio di un bufalo con gli occhi ancora nelle orbite, e gli occhi erano oscurati da nugoli di mosche, e sembrava che parlassero, e un corno era stato strappato e l’uomo lo portava infilato nella cintura come un pugnale d’osso. Un altro procedeva reggendo con una mano l’altissimo manubrio di due moto affiancate, una diversa dall’altra, rese solidali da macchinosi leveraggi, e stava in piedi con le gambe divaricate equilibrandosi sugli stivali poggiati uno per sella come conducesse una biga surreale, e nell’altra mano brandiva una frusta e flagellava un uomo seminudo in lacrime che gli correva a fianco sanguinando asservito a una catena. Alcuni cantavano ballate oscene in spregio al creatore e alla creazione e a tutte le creature, molti urlavano parole incomprensibili e altri ululavano come cani. Uno aveva la faccia dipinta di bianco come con la calce viva e indossava una gonna lilla infilata alla rovescia e esibiva un reggiseno bianco tutto imbrattato di sangue, e dalla congiunzione delle coppe spuntava la testa mezzo marcia di un ratto stecchito; guidava un veicolo a tre ruote di diametri diversi, e anche lui cantava a squarciagola, e non aveva un dente in bocca. Un altro indossava una tonaca da monaca dipinta di colori sgargianti e portava uno scapolare da cistercense senza cappuccio, e lo scapolare era inanellato di orecchie umane e dita femminili rattrappite. Una donna di straordinarie proporzioni con una bluastra capigliatura turrita veniva giù tra loro sbandando a bordo di una Harley-Davidson rugginosa e deflagrante. Una valchiria anche lei acchittata di pelli umane e pellicce spelacchiate, e alla cintura portava appese una mano mezzo scarnificata e una falce enorme priva di manico che pareva sottratta all’icona stessa della Morte. La ruota posteriore della moto era floscia, e la donna procedeva posando a terra i piedi alternativamente per mantenerla in equilibrio, come pattinasse, e calzava carapaci di testuggine risonanti come zoccoli, e dal tubo di scarico uscivano fiammate come uscissero dall’ano stesso del demonio. Alcuni indossavano lacere uniformi militari, certi solo la giacca con le maniche strappate, e le braccia tatuate erano lorde di sangue e di escrementi, e le gambe nude lo stesso. Un ufficiale portava incrociati sul petto due fucili mitragliatori e portava il berretto di ordinanza sulle ventitré, e sull’unghia era scritto con smalto rosso Rape for ever, Stupro per sempre. Un paio di soldati, anch’essi armati fino ai denti, si tiravano dietro legati con lo spago arti umani e brandelli di cani, e i femori e le ulne e le rotule e le altre ossa di quei resti abrasi dall’asfalto rilucevano bianche come il ghigno degli spettri. Una legione di esseri spaventosi sfuggiti al delirio di un appestato dell’Alto Medioevo, un incubo gotico di sicari pervertiti sognati da un cantastorie frenastenico e trasformati in carne e ossa da una qualche divinità pagana al terzo stadio di sifilide.

La valchiria si fermò a ridosso della mia moto. Smontò dalla Harley e la lasciò dov’era, accesa e scoppiettante. Poi sfilò la mano che teneva appesa alla cintura e in una continua estroflessione e ritrazione della mandibola ne sgranocchiò le dita, come un immondo rettile frutto di un equivoco genetico.

Guarda qui che bel gingillino abbiamo, disse risucchiando le gengive, e posò la mano insanguinata sulla sella della mia moto, estrasse la falce e la agitò all’intorno per richiamare l’attenzione di quelli che seguivano e poi gridò qualcosa all’indirizzo di quelli che erano andati avanti. Che fecero inversione e tornarono indietro e si adunarono insieme agli altri intorno alla donna, sempre con i motori accesi.

La moto è mia, disse lei. Lui, vostro.

 

Tratto da Miss Thaimatic, III romanzo della mia Trilogia Siamese

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