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porca

porca

Ieri sera dieci anni fa, saranno state le nove zero sette/nove zero otto, esco di casa portandomi dietro il dattiloscritto di un’amica che ha talento da vendere e ancora non lo vende, una storia bruciante di delitto per ora senza castigo, scritta in una forma contratta, nervosa, precisa, quasi perfetta. Salendo in moto realizzo che non esistono né generi, né stili narrativi, né tantomeno sottogeneri e sottostili, solo forme espressive espressione di tanti cervelli pensanti e cuori senzienti quante sono le gabbie toraciche e le scatole craniche che quei cuori e cervelli osteofisiologicamente ingabbiano. Sono affamato a caccia di cibo e della gratificazione che a volte il cibo mi dà. Mi dirigo al Due Stelle con un baccalà alla vicentina pregustato così magnificamente che già la papilla mi titilla e la lingua mi trasuda neanche fosse un’anguilla. Due Stelle chiuso, spento, blindato, morto. Inverto la rotta, c’è un buco vicino a Porta Pile che fa certi piatti romani pesanti e gustosi, quello che mi ci vuole per non pensare a nient’altro che al dattiloscritto rovente che mi brucia il culo di sotto la sella. Stessa storia – morto per ferie. Girando la moto, mi imbatto nel titolare, seduto come un pupazzo sul suo quad piccolo piccolo che pare un giocattolo. Capelli grigi da racchio, lunghi e allisciati come quelli della mia prima barbie che non ho mai avuto. Lo affianco. A domanda risponde tutto giulivo Riapriamo a settembre.

Dico Bene, buone vacanze.

Dice Sei il primo a dirmelo, avessi sentito cosa mi hanno detto gli altri.

E che dovevo dirti, dico, affanculo come gli altri, penso e non dico, mi impongo sempre le buone maniere, specie quando si tratta di perdere.

Via di nuovo di bolina nella calura satura di idrocarburi, sempre a caccia di locali scantonati. Non amo i ristoranti di lusso perché se non ti dai un tono di lusso fanno di tutto per farti sentire un reietto, e a questo punto non ho l’energia per fargli sentire che se sono reietto sono un reietto di lusso. Mi interessa leggere lei e gli omicidi commessi da lui, e ho una fame assassina. Pizzerie non se ne parla, non sono dell’umore per reggere gli sguardi indagatori di gestori zelanti che ti frugano dentro con quel genere di gentilezza fasulla direttamente proporzionale al costo della pizza. Fanculo lo stomaco, fanculo anche il fegato. Mi faccio un kebab. Quindici chilometri di guida semi notturna in città per andare da Porta Venezia a Piazza della Repubblica e divorarmi un bisunto kebab. Parcheggio a fianco vetrina, siedo e godo della postazione di un principe. In primo piano la moto che nessuno la tocchi, dietro un carosello di fari che mi fa pensare a quanto è bella la vita, sopra, sul display digitale, controllo il tempo che sale e la temperatura che scende, di poco ma scende. In attesa del kebab, getto un’occhiata al cellulare, nuovo messaggio. Porca, c’è scritto, anzi, minuscolo: porca. Nient’altro. Numero sconosciuto. Sarà per via di certe fotine che ho messo su Facebook? Chi sei, principessa? rispondo al messaggio. Chissà perché in prima battuta ho pensato a una donna. Poi ci ripenso e scrivo un nuovo messaggio: O devo dire: principe? sai, i complimenti sinceri fanno sempre piacere ma anonimi lo sciupano un po’.

Arriva il kebab. In piatto e posate – sempre più principe. Mi immergo nella carne viscida e nella lettura secca ma non arida. Più simile al sole sovrastante il deserto che al deserto sottostante. Prima però tolgo l’opzione silenzioso al cellulare. So che meno ci penso prima arriverà un segnale dal mittente di porca. Con un occhio sprofondo nella luce nera del dattiloscritto mentre con l’altro porto il montone alla bocca. Due minuti e il telefono squilla. Sono M***, dice una voce maschile e poi scoppia a ridere, Scusa, ho sbagliato destinatario.

Bel modo di trattare le amanti, dico. Attento la prossima volta a non inviarlo a tua moglie.

M*** ridacchia, si scusa di nuovo e poi chiude. Ingollo il kebab, torno a silenziare il telefono, do un’occhiata malvagia a quattro rumeni che giocano a carte, urlano e pestano i piedi sull’assito, mi intenerisco per un magrebino che tira fuori un portatile nuovo di zecca dalla confezione, lo apre e lo accende; sento che si sente felice. Sorrido a un bambino indiano pelato, il bambino mi guarda abbruttito, il padre mi sorride a sua volta. Procedo a un incantesimo di isolamento e mi tappo mentalmente le orecchie. Non voglio sentire altro che la voce narrante che mi narra una storia che non ha niente a che vedere con me.

 

Brescia, Estate 2009 – Ko Samui, Estate 2018

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