fbpx

Sex & Drugs & Divine Literature

Sex & Drugs & Divine Literature

Hofmannsthal dice che le pene che affliggono gli artisti mediocri sono le stesse che tormentano i grandi. Impossibile non trovarsi d’accordo e non arrovellarsi sul dubbio se le nostre pene valgano o non valgano la pena della nostra arte, o più umilmente, dei nostri tentativi al riguardo. Impossibile prendere le misure esatte della propria mediocrità. Ma è certo che se uno scrittore vuole comprendere qualcosa in più di se stesso non può limitarsi allo studio delle opere di chi l’ha preceduto: deve altresì approfondirne gli elementi biografici. E poiché delle vite dei piccoli artisti non rimane traccia, non resta che cercare riflessi di sé nelle vite dei grandi, i soli dei quali è possibile disporre di un qualche frammento di vita vissuta oltre che della loro vita scritta, per il vero scrittore l’unica vita che vale la pena di vivere.

Come qualsiasi altro essere umano, nessuno scrittore (o quasi) è del tutto stupido, e per quanto arrogante possa sembrare, lo scrittore romantico – inteso come chi in fin fine non scrive che di sé – non è inconsapevole del divario che corre tra sé e le pietre di paragone cui di volta in volta presuntuosamente si accosta. Ma è proprio grazie a scrittori come Baudelaire, l’irraggiungibile; come Archiloco, l’individualista, litigioso, ubriacone, trasgressivo e anticonformista giambografo, che per salvarsi la vita in battaglia gettò lo scudo, (tanto, scrisse, poteva sempre ricomprarsene uno nuovo), e corse a premere le sue reni di disertore nelle carni della bellissima Neobule; Bukowski e Henry Miller, gran bestemmiatori, ubriachi sempre, scrittori genuini come pochi, superati solo, forse, da John Fante; Proust, l’assimilatore, il secondo irraggiungibile; Nietzsche, l’aquila strabica e onnisciente, è grazie a loro che – confessioni degli amici a parte – possiamo cogliere, tra mille e mille cose pertinenti a noi stessi, testimonianza diretta di un’attitudine tanto clandestina quanto invalsa nel genere umano di genere maschile.

Costretto nella duplice morsa delle pressioni del patrigno da un lato e del suo stesso temperamento irruente dall’altro, Baudelaire, ventenne, è costretto a lasciare Sarah, prostituta giovanissima, in arte Louchette, con cui intrattiene una relazione morbosa, burrascosa e ubriaca, e a imbarcarsi per dell’Oriente. A Calcutta, sua destinazione finale, non arriverà mai. Si ferma, invece, poche settimane all’Isola Mauritius, poi raggiunge la Réunion: s’ingozza gli occhi di paesaggi trasmarini e di tinte sontuose, si addentra nei poteri della sensualità, e dopo appena dieci mesi d’assenza fa ritorno in Francia. Come altri scrittori capaci di profondità inaudite, Baudelaire del suo viaggio non colse che gli elementi di superficie, perché la superficialità è l’ultimo baluardo, il porto sicuro degli animi abissali. Non arrivò in India: era troppo giovane per sapere che una permanenza in quel Paese avrebbe, forse, potuto dare una svolta alle sue terribili contraddizioni. Per quanto gigante incontrastato della letteratura mondiale – al pari di Proust che l’amò tanto da attingere a piene mani alla sua poetica e ai suoi stilemi –, Baudelaire (scrittore e uomo) non fu in grado di superare la dicotomia manichea tra bene e male. Ecco invece cosa fece. Su un trono mise a sedere Satana, con le sue seduzioni irresistibili, il piacere, la sensualità, l’abbandono alla decadenza e l’ostinato perseguimento dell’autodistruzione, sull’altro trono incoronò le sue visioni di Bellezza, di Paradisi più o meno artificiali, di un dio creatore al quale rivolgersi nei suoi slanci tanto mistici quanto effimeri. Ne uscirono abbaglianti capolavori di bellezza e di dolore, dai quali Baudelaire non poté uscirne vivo. Benché non più giovane, era rimasto cristiano (o anticristiano che è lo stesso). Forse, se avesse raggiunto l’India e ne avesse assorbito la teogonia, si fosse almeno adornato il cuore dei suoi allestimenti metafisici, il suo genio non avrebbe mancato di comprendere come alla sua doppiezza – che non era che l’esacerbazione dell’ambiguità di tutti – avrebbe potuto non già contrapporre, ma anteporre e sovrapporre la completezza, l’integrazione, la visione sferica della natura profonda, ondulatoria, vorticale delle cose.

La trimurti indiana, per quanto caparbiamente associata alla trinità, in verità, non ha nulla a che spartire con quest’ultima se non la triade dei personaggi in campo. Nella confessione cristiana c’è un padre, c’è un figlio, e c’è uno spirito santo, uno per tutti, tutti per uno, tre moschettieri in eterna lotta contro satana. Nella trimurti, invece, sono presenti tre aspetti dell’unica energia primigenia che si manifesta rispettivamente nella Creazione (brahma), nella Conservazione (visnu), e nella Distruzione (shiva). È vero: nell’Induismo si annoverano trecentotrentatremilatrecentotrentatré dei (ciascuno dei quali anima e regola, in una rappresentazione animistica, pittoresca e quasi disneyana delle cose, una specificità dell’esistente) nonché un numero imprecisato di demoni schierati contro di loro: i concetti di bene e male sono altrettanto presenti che nella dottrina cristiana. Nondimeno, ai vertici della piramide teologica indù, i demoni sono latitanti, addensati come sono ai piani bassi dove mancano figure di spicco quali un lucifero o un belzebù. Di conseguenza ciò che di distruttivo nell’ammezzato è diavolo, nei piani nobili è dio. Vale la pena di dirlo un’altra volta: ciò che di distruttivo negli ammezzati è diavolo, nei piani alti è dio. Ecco il colpo di genio dell’induismo: aver compreso che la Distruzione (il dio shiva) è un bene essenziale alla vita. Quando poi, come nel corso degli eoni di tanto in tanto capita, shiva, a causa dell’inettitudine degli dei minori, brandisce le armi contro i demoni, non si deve pensare a una lotta del bene contro il male ma a una forza distruttiva che agisce contro un’altra forza distruttiva. Lo scopo finale della guerra non è vincere (shiva vince sempre, come spiderman), lo scopo finale è dare luogo a caos nuovo, a nuove stelle danzanti, produttive, infine, di vita nuova. Questo è il cerchio, o meglio la spirale evolutiva dell’esistenza cosmica e umana, secondo l’induismo. Certo, la nostra visione limitata delle cose resta sgomenta di fronte a tanta devastazione, ma bisogna tenere presente che si tratta di un problema nostro, antropocentrico, non del cosmo che per sua unica natura è simultaneamente autodistruttivo e auto rigenerativo (le continue collisioni tra galassie la dicono lunga in merito: siamo vivi per miracolo, è il caso di dirlo).

Baudelaire che pure aveva compreso – e nessuno meglio di lui, mai – come dal letame nascono i fiori, visse troppo assorbito nel suo incommensurabile dolore esistenziale per poter comprendere, anche, che lui stesso, lungi dall’essere un gregario di satana, era il letame generativo di quei fiori che chiamò del male. La sua autodistruzione fu, è, patrimonio dell’umanità. La sua autodistruzione è al pari di quella di uno shiva, portatrice di vita, la nostra.

Né mi sembra banale soltanto perché vero affermare che l’alcol e le droghe che incrociarono la vita di giganti come Baudelaire, Bukowski e Henry Miller, e – sospetto – come Archiloco, e – senza dubbio – come lo stesso Proust (che a fronte delle sue asme, astenie, pigrizie, pene e dolorini s’imbottiva di misture a base di adrenalina, noradrenalina, Veronal e morfina base, regolarmente prescritte dal suo medico personale), affermare, dicevo, che furono proprio esse, droghe e alcol, il filtro opaco attraverso cui questi giganti non poterono uscire da una visione delle cose di stampo manicheo. Persino Proust con la sua lucidità irraggiungibile e la sua capacità, unica al mondo, di vedere l’invisibile e di bazzicare gli apogei dell’Arte scrivendo un volume intero, l’ultimo della Recherche – Il tempo ritrovato –, il capolavoro che in una vertiginosa rifrazione speculare illustra l’arte di scrivere capolavori, cioè l’arte di scrivere lo stesso capolavoro che stava scrivendo e che concluse steso a letto, una botta di adrenalina iniettata in vena per tirarsi su e scrivere, e una presa di morfina diluita in acqua per abbandonarsi alla rêverie da cui attingere per scrivere, persino lui visse fino alla fine dei suoi giorni prigioniero della morale corrente all’epoca in cui scrisse, tanto da nascondere agli occhi del mondo (che ci vedeva benissimo) la sua omosessualità (o bisessualità che fosse). Nietzsche, che aveva assimilato religioni e filosofie orientali, riuscì a spingersi oltre i confini del cristianesimo e della morale dominante, navigò come una cometa negli iperurani di là del bene e del male, e ne uscì, come Proust, drogato di farmaci prescritti (somministratigli dalle mani soccorrevoli della sorella) nonché pazzo come nessuno – il suo inestimabile lignaggio di pensatore e artista ebbe fine il giorno in cui si mise a pomiciare con un cavallo.

Avventurarsi letterariamente e umanamente negli abissi in cui si sono addentrati e sulle vette su cui hanno dimorato scrittori di questa levatura ha più a che vedere con i tuffi estremi praticati dagli stuntman che con le ragioni di una vita avventurosa e di una letteratura d’avventura. Il rischio di frane psichiche e di collassi psicologici è tanto elevato quanto micidiale è il dolore emotivo che li ha condotti a quelle profondità e a quelle altezze. Il ricorso all’alcol, a droghe lenitive, all’oppio e derivati, all’assenzio e a altre porcate deve essere loro sembrato un passo che, si dica quel che si dica, poco aveva a che vedere con la moda ricorrente di assumere droghe come strumento utile alla ricerca della verità, e tutto a che fare con il goffo tentativo di mitigare le loro pressanti, ossessive istanze suicidali (basta dolore, basta!).

Fu proprio a motivo delle loro altalenanti alterazioni di coscienza che questi mostri sacri mancarono il bersaglio, e vissero confinati come tutti nell’umana, troppo umana, insuperabile diatriba bene/male. Non c’è bisogno di addentrarsi in analisi accademiche logore e complesse, basta rilevare che vomito e emicranie dovettero apparire loro come sintomi lampanti che l’ubriacatura è male, che drogarsi è male. Di lì, il bisogno del bene, di un dio, di una donna, di una prostituta, di una mamma-rifugio. Di qui, l’incapacità di vedere che alla fin fine tutto è bene (come lo sono gli scontri tra galassie: morte delle stelle, morte della vita: nuove stelle, vita nuova).

Soltanto una caparbia sobrietà chimica avrebbe potuto dischiudere al loro genio malato la possibilità di una visione sferica della realtà analoga a quella toccata in sorte dagli induisti e conquistata con il rigore dell’astinenza da alcuni artisti meno noti che induisti non sono.

 

© 2018 by Giulio Ranzanici – All Rights Reserved

 

Aggiungi commento

Your email address will not be published. Required fields are marked *