A parte l’eventuale dolore fisico, ciò che mi sgomenta della morte non è la fine della vita – al contrario, cosa c’è di più riposante di un bel sonno senza sogni, cosa c’è di più pacificante di un bel nero niente dentro con fuori niente che lo guarda? È la vertigine della non-fine a cavarmi il fiato, la perpetuazione all’infinito dei rituali quotidiani (svegliarsi, cagare, spazzolare i denti, e via dicendo), l’eterno ritornello delle relazioni umane, un insipiente breaking bad che non finisce mai. L’idea della vita eterna rassicurerà molti, ma a me non attira, la chiesa non vedrà un centesimo dei miei, vedrà scritti e libri articolati di profanazione e blasfemia, cioè di verità esperite. Questa aspirazione rasserena. Rasserena me che sono inquieto, non depresso: vivere mi piace, vale la pena di essere al mondo e stare al gioco già che ci sono, ma come ogni gioco che un giorno ha avuto inizio vorrei che un giorno avesse fine. Senza reincarnazioni o palleggi spirituali in altre dimensioni. Senza i miei occhi eterici che guardano le scarpe allineate e i probiotici e l’oro e l’azzurro della mia camera da letto finalmente sgombra di me e dei miei pensieri, libera e radiosa come il sole quando appoggia i gomiti a quella che non è più la mia finestra.
Lamai, 24 febbraio 2019
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