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Suxanta

Suxanta

Presero un viottolo buio, quasi nero come ogni altra cosa visibile e invisibile all’intorno. Il terreno era secco, sconnesso, venato dai solchi scavati dai cerchioni dei carri e dagli pneumatici dei macchinari agricoli. La luna non era ancora sorta, e le stelle pulsavano flebilmente come stremate, e gechi giganti rantolavano nella campagna.

Costeggiarono campi coltivati e schiere di alberi da frutto. Nere silhouette di manghi, banani, tamarindi, aranci, durian – ombre immote di sentinelle appartenute a epoche remote, pietrificate fino alla fine del tempo. Il piccolo stringeva la mano della donna, con l’altra strapazzava il cordino della betoniera. Di tanto in tanto il giocattolo si capovolgeva, lui strattonava il braccio di sua madre, e senza lasciare la presa si fermava e lo rimetteva diritto con piccoli calci di assestamento. Si fermarono così diverse volte e ogni volta ripresero il cammino, e il rumore coriaceo delle ruote li accompagnava sempre.

Procedettero per circa un’ora. Due o tre volte Fiu balbettò qualcosa che aveva a che vedere con il piccone del padre, con il cemento delle betoniere. La madre non ascoltava, concentrata com’era a non perdere l’orientamento. A un certo punto si udì qualcosa, una via di mezzo tra un ruggito e un latrato. Si fermarono, in ascolto. L’aria si era raffrescata e portava odore di terra, acqua e humus. Non ci furono altri versi, e proseguirono. Ora il piccolo si trascinava aggrappato alla mano della madre con le unghie conficcate nel dorso. La donna avanzava a passi circospetti, quasi in punta di piedi, e per non fare rumore si era messa la betoniera sotto braccio. Lui seguitava a esercitarne il possesso trattenendo l’estremità del cordino. Si inerpicarono sempre così per una ripida collina e poi scesero sul versante opposto scivolando come spettri. Videro la luce del falò, percorsero un tratto di radura e poi videro anche la vecchia. Sedeva a ridosso delle fiamme, le spalle alla capanna, la testa china.

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