4. Amoco
Un doposcuola di primavera, sul plateatico del bar della Fortezza, un tale dice qualcosa di inappropriato a proposito di mio fratello maggiore. È un ripetente alto e corpulento dagli occhi acquosi e le mani rosse. Si dà arie di essere fascista o neonazista, non ricordo bene, in controtendenza con la maggior parte degli habitué del bar, una consorteria di maoisti in loden, stalinisti-leninisti in cachemirino beige o azzurro-polvere, anarchici con o senza eskimo che frequentano i licei privati più dispendiosi della città per prepararsi a diventare anni dopo, se non tutti buona parte, burattini dei padroni che avevano dalle piazze contestato solo a parole, ma roboanti, e che poi si riveleranno i più acerrimi nemici della classe operaia e dei suoi rappresentanti sindacali, così eroicamente sostenuti in quegli anni eroici di rivoluzioni sempre a parole ma sempre roboanti. Fatto sta che questo fascista o neonazista che sia insulta malignamente mio fratello maggiore, al momento assente. Al che, mia sorella si fa avanti e gli intima di ripetere quello che ha detto. Se hai il coraggio, dice sfidandolo con le mani sui fianchi e gli occhi puntati in quegli occhi annacquati. Ripetilo e ti spacco la faccia, dice. Quello torce la bocca in un sorrisetto e ripete l’epiteto parola per parola. Il gancio sinistro (era mancina, lei) parte dal basso, non un uppercut ma un vero e proprio gancio che risale rapidissimo e arriva inaspettato, imparabile. Le nocche colpiscono la mandibola con il rumore di un ramo spezzato, e il nazista crolla sulle ginocchia con quelle sue mani follemente rosse al mento, e in quella posizione si rivela alto poco meno di mia sorella che di statura era molto bassa, come già detto altrove. Un centinaio di occhi hanno assistito alla scena. C’è un istante di sospensione, poi si leva un grido di giubilo e parte l’applauso, sostenuto da un coro che inneggia a mia sorella scandendone il nome, per me per ora tuttora impronunciabile. L’applauso sembra non finire più e io sorrido tutto compiaciuto e mi guardo in giro lampeggiando orgoglio a destra e a manca. Dico, chi altri può vantare una sorella così cowboy?
Certo, è nella natura umana esaltare le doti delle persone amate che abbiamo perso, specie quando le abbiamo perse giovani giovani noi stessi, tendiamo a farne eroi e eroine, a farne deità, e i lari e i penati degli antichi romani ne danno, storicamente, ragguardevole evidenza. Sono consapevole che qualunque episodio allegassi a prova del fatto che mia sorella era una persona davvero rara, incorruttibile, quasi fosse lei stessa la vestale della qualità migliore che il mondo, il nostro piccolo mondo antico, le riconosceva unanime: un senso di lealtà duro e trasparente come il diamante, un brillante incastonato in un anello di coraggio sovrumano… qualunque cosa dicessi verrebbe tacciata di essere una sorta di apologia o panegirico costruito a posteriori per dare vigore a quel motto maledetto: Muore giovane chi agli dei è caro (gli dei, gli dei: come non bastasse Amoco, il destino che ti fotte sempre, di colpo o a poco a poco…).
Qualunque cosa dicessi, dicevo, verrebbe intesa come un tentativo postumo di dare un senso alla sua morte prematura: farne una santa a uso famigliare. Più intimamente, metterla nel tabernacolo della Memoria, la cui porticina si può dischiudere di tanto in tanto, quando si è già tristi per conto proprio, e sbirciare la luce dorata che si irradia dall’interno per farsi coraggio e continuare a vivere una vita che per me non ha più senso se non quando la manipolo come un impasto di farine eterogenee già infornate nel caldo del mio cranio, e che lascio levitare finché, quando è il momento, servo infine in forma scritta.
La vita scritta, per me la vita più attraente se non l’unica vita oggi ancora attraente, una forma di vita a sé stante, a base inchiostro anziché carbonio, un essere più o meno croccante a seconda delle farine dei miei sacchi di volta in volta utilizzate e dei tempi di cottura passati nel cervello.
Adesso sono lì che cerco un sostantivo in grado di indicare la condizione del cowboy specchiato, se mai ne è esistito uno, cerco un termine che definisca l’essere lealmente cowboy. Scarto cowboyismo non perché detesti a priori gli -ismi (oggi è di moda far sapere che si detestano gli -ismi, e chi segue questa moda di solito lo fa per darsi arie di essere particolarmente intelligente), scarto questo termine per una specie di riguardo verso il mio senso estetico che mi fa odiare la cacofonia in genere e il fracasso delle campane a morto, o peggio a festa, in particolare. Per quanto mi arrovelli non mi viene in mente niente di meglio che cowboytà. Cowboytà, non è un granché come parola, ma per ora la metto lì, in disparte, con l’idea di pensarci su più tardi, con l’idea, adesso, di godermi la guida della moto in stile americano, mangiare noccioline, bere un po’ d’acqua, ascoltare dalle cuffiette un brano di rock progressivo che, se non mio, a forza di ascoltarlo è diventato me. Lascio il manubrio con la sinistra per pinzare dal sacchetto che tengo tra le cosce una presa di mandorle sbucciate possibilmente senza perderne nessuna, quando qualcosa di sinistro mi scivola a fianco e mi sorpassa da sinistra, dal lato scorretto, una cosa velocissima che mi sfiora così fulminea che per indentificarla mi ci vuole qualche istante. Per quanto mi conosco, potrei scommettere che se non fosse per il fatto che non sto andando a Chaweng ma sto tornando e quindi mi ritrovo in modalità post-coito tutt’altro che interrotto, e che perciò viaggio rilassato come può esserlo uno che se non scrive al computer o sul telefono o sulle tovaglie di carta, scrive comunque nella sua testa, potrei scommettere, dicevo, che se a Chaweng ci stessi andando, a costo di un’inversione a U a mio rischio e pericolo mi metterei all’inseguimento e farei un video sul filo dei cento all’ora, a costo persino, così facendo, di ritardare di qualche minuto il mio meritato coito post-scritturale, perché quei due ragazzini zizzaganti di cui ancora si vedono le nuche nere rimpicciolirsi precipitevolissimevolmente, abbarbicati entrambi sulla montagna di fieno ancora verde che sovrasta il motorino sono una visione che meriterebbe di essere rivista. Ma, dicevo, non è il caso, sono indolente, quasi beato, e, del resto, quella scena variopinta, leggendola, si vede benissimo anche così e, rileggendola, si riesce a rivedere benissimo sempre così, nero su bianco.
A parte quei due, il traffico del tardo pomeriggio procede lento come un serpente sonnacchioso. Tengo il passo guidando con una mano e con un piede tengo il ritmo della musica. Mastico noccioline non vedendo l’ora di liberare gli interstizi dentari dai frammenti che, per adesso, non posso che ravanare con la punta della lingua già infiammata da quel continuo lavorio peraltro inutile. Respiro aria di mare che arriva dal basso e idrocarburi che arrivano dappertutto. Un retro pensiero sa dove sono diretto.
Fermo, poco dopo, la moto sul ciglio della strada, più che una strada un viottolo di cemento tutto crepato, qua e là coperto di sabbia portata dal vento. Tutt’attorno è un rigoglio di palmizi, di alberi di tek e di mango, di frangipani, di felci e di rovi e di prati verdi per pascolarci i bufali, e il verde già tende al grigio. Quando mi dicono che la ragione principe del vivere su una piccola isola deve avere a che fare con la possibilità di passare tutto il tempo al mare, di regola annuisco. Non trovo più alcuna ragione di spiegare o di spiegarmi. Se uno vuole conoscermi davvero, può leggere i miei libri. Altrimenti, significa che parla tanto per parlare. O per significarmi che sono fortunato, e questo già lo so. È raro trovare persone davvero nutrienti. Che abbiano qualcosa da dire, che sappiano ascoltare. Il miglior ascoltatore proprio sul tema di Samui, l’ho incontrato casualmente nella sala d’attesa del dentista, in Italia. Un industriale dell’arredamento con un reddito dichiarato di diversi milioni di euro l’anno che conosco poco più che di vista. Vivo in una città piccola, sapeva che passo molto tempo in Thailandia. Mi ha fatto domande e ha ascoltato attentamente le risposte, e nei suoi sguardi silenziosi ho percepito un’intelligenza fuori del comune, la stessa forma di intelligenza e di curiosità, immagino, che gli ha permesso di diventare quello che è diventato costruendo armadi e comodini. La ragione per cui vivo su una piccola isola è che su una piccola isola trovi tutto nel raggio di pochissimi chilometri, gli ho detto. Dopo un po’ di tempo, al mare ti ci abitui, non hai necessità di andarci tutti i giorni, ti basta sapere che è lì, è sempre lì, mica si muove, puoi andarci quando vuoi… del resto, il mare, lo percepisci ovunque e dalla costa lo vedi ovunque tu sia.
All’industriale dell’arredamento si accompagnava la moglie che conosco molto meglio che di vista, una delle tante vittime della chirurgia estetica dei labbroni enfiati e della pelle del viso spalmata come da un effetto speciale del sistema Android di vecchia generazione. Dopo un attimo di tentennamento – benché lei ascoltasse poco o niente, tutta impasticcata come eloquentemente dicevano i suoi muti occhi cristallizzati… Dopo un attimo di tentennamento, la sua presenza per quanto assente mi ha persuaso a tacere l’analogia cardine che domina l’isola: come il mare così sono i bordelli. Facilmente agibili, sempre aperti, sempre belli, molti azzurri dentro e fuori proprio come il mare. (I bordelli: che Amoco non si azzardi a perturbarli!)
Gli ho parlato, invece, del verde, ugualmente raggiungibile. Della foresta pluviale, dei palmeti, della vegetazione che inerpicandosi lungo la montagna cambia, si fa quasi preistorica, misteriosa, minacciosa, alla Jurassic Park, per intenderci, ho detto. Gli ho detto di quando, sul far della sera, mi fermo nella giungla prima di rientrare a casa (così come mi sono fermato ora), ma mai a sera fatta, ho detto, men che meno di notte perché i randagi si riappropriano del loro selvaggeria congenita, e attaccano. Gli ho detto del verde, dei vapori di ossigeno che accompagnano l’ultima luce, dell’amore che certi thai nutrono per gli alberi, la stessa adorazione che avevano i druidi celtici e che dicono di avere i druidi neopagani di oggi. Del fatto che lì, a cavalcioni dalla moto spenta, finalmente trovo pace. E se in quei momenti non posso dire di non pensare affatto, posso dire di pensare meglio. Mi sono, anche, auto citato: Non è vero che si soffre perché si pensa troppo, si soffre perché non si sa pensare, ho detto. Ho scandito il mio aforisma e poi ho sorriso. Lui mi ha guardato in silenzio con grande serietà, finché è venuto il suo turno per la visita.
E ora eccomi qui, a margine della mia stradina ritagliata nella giungla, seduto sulla moto, come già detto. Mi sono ripiegato, quasi arrotolato su me stesso come un onisco caduto in letargo: mento sul petto, niente cuffiette, occhi chiusi. Ascolto gli uccelli che a uno a uno si fanno silenziosi. Il mattino cinguettano l’inventario del creato, la sera ci scompaiono dentro. Il graduale affievolirsi della luce e dei suoni mi rimanda ogni volta all’illusorietà di ciò che crediamo reale. Mi sono fatto l’idea che la realtà appaia e scompaia come il canto degli uccelli, come la luce, come noi stessi quando entriamo e usciamo dalle porte, varchiamo soglie, siamo qui e siamo là, come in quella sorta di perenne bilocazione che mi vede camminare sulla spiaggia di Lamai quando cammino nel mio giardino in Italia e viceversa. Come ci fossero due me, una che cammina qua, l’altro che cammina là, e a diecimila chilometri di distanza i due si pensano, quasi si vedono, e così pensandosi restano in contatto fino a riunirsi in uno solo che non è né qua né là; e se non sono pazzo, lo devo al fatto che sono consapevole, e accetto che la mente umana è complicata. Ciò che, invece, è semplice è il corpo, ma solo apparentemente, perché dentro, con la sua miriade di processi biologici, fisiologici o patologici che siano, lui, il corpo, si rivela molto più complicato di qualsiasi mente, e molto ma molto più intelligente della mente più intelligente che possa esistere o che sia mai esistita. Lo prova il fatto che nessuno al mondo, nemmeno un genio, sa eliminare le tossine a semplice comando o creare globuli bianchi o rossi con la forza del pensiero.
E ora eccomi ancora qui, ripiegato su me stesso sempre con il mento sul petto e gli occhi chiusi. Quando percepisco una presenza, apro gli occhi e lei è già lì, a due palmi da me. Mi ci vuole qualche istante per identificare quel viso dai tratti mongoli, quasi cinesi, per collocare quell’incarnato giallastro nella casella corrispondente al ricordo relativo. Poi in un lampo, tutto si ricompone, e lei che deve aver scorto nei miei occhi la fine dello smarrimento sorride di sollievo con gli occhi strizzati, due triangoli molto neri e luminosi, quasi luminescenti nella luce della sera. Mi chiede come sto, mi dice che non lavora più al Paradise Beach, ha avuto un diverbio con i titolari, adesso lavora in proprio: i massaggi li faccio a domicilio, dice. Continua a guardarmi fissa mentre i lineamenti del viso le si accartocciano come una pagina data alle fiamme. Mio figlio è morto otto mesi fa, dice con la bocca rattrappita, poi fa due cose che dopo tanti anni passati qui mi è capitato di vedere tra i locali raramente. Piange. Piange e mi abbraccia. Mi posa la testa nel cavo della spalla e mi stringe forte, cercando un appiglio fisico all’irrimediabilità psicologica della sua perdita. Fiu, il suo unico figlio, è morto. Le carezzo la nuca, le carezzo la treccia corposa, annodata saldamente a significare l’efficienza di chi lavora duramente, di chi deve lavorare sempre perché guadagna poco o niente… sempre, che il proprio figlio sia vivo oppure morto di recente. Fiu. Per lui, anni fa, ho giocato a pallone sulla spiaggia del Paradise Beach, per lui e con lui ho giocato, io che a calcio faccio e ho fatto sempre schifo perché non mi sono mai cimentato in vita mia, e lui rideva dei miei saltelli da impedito. E sua madre, questa donna ancora con la testa ripiegata nel cavo della mia spalla, lei massaggiava un uomo e ci sorvegliava sempre massaggiandolo. Fiu, il suo unico figlio, affidato a me, uno sconosciuto venuto lì per un massaggio estemporaneo… però c’era da aspettare. Nell’attesa, lo stesso Fiu mi aveva fatto capire che voleva giocare con me, e per me quella richiesta era stata un onore, e il consenso di sua madre un’investitura. Dopo quei quattro tiri a pallone inverecondi, mi aveva seguito in acqua. Me l’ero tirato dietro nella baia fino a dove non si tocca, e gli occhi di sua madre non ci perdevano di vista. L’ho incoraggiato, gli ho trasmesso tutta la fiducia di cui è capace un uomo nato e cresciuto senza fiducia di base, che ha dovuto costruirsela ex-novo, già adulto, la sua fiducia, un self made man della fiducia, un arrivista della fiducia, ma che alla fine si è rivelata in più occasioni fiducia vera, come veri sono i soldi di un parvenu arrivato. Quel pomeriggio Fiu ha imparato a nuotare. Lui, un ragazzetto tarchiato, pesante come il marmo. Al ritorno, era esausto, il mare era agitato, così me lo sono caricato sulla schiena come un cucciolo e come un animale io stesso, ansimando, l’ho riportato a riva sano e salvo. Io me ne sono stato lì piegato in due con le palme sulle ginocchia a cercare di riprendere fiato, lui è corso al gazebo, e mentre correva gridava a perdifiato Mè, mè, uai nam rian, uai nam dai tonì, ma mi glua, farang dee, Mamma, mamma, ho imparato a nuotare, so nuotare adesso, non ho più paura, lo straniero è stato bravo.
E ora Cheng – il nome mi è tornato alla memoria – ora lei lo piange. Doveva compiere diciannove anni una settimana dopo, dice tra i singhiozzi. Lei che non tocca nessuno se non per ragioni professionali. Così dignitosa. Quasi regale nel portare in giro la sua bassa statura, resa più bassa dall’arcuatura delle gambe. Lei che non tocca mai nessuno, adesso si tiene stretta a me come una bambina disperata.
Cosa può dire un uomo a una donna che ha perso il suo unico figlio di neanche vent’anni? Che cosa si può dire di fronte all’ennesima luctuosa hereditas, l’eredità a rovescio, il lutto che capovolge e sconvolge il concetto che noi abbiamo delle leggi di natura. Perché malauguratamente è proprio così, quel concetto l’abbiamo noi, soltanto noi, non la natura che per concetto non ha concetti. Altrimenti i nostri cuccioli, i cuccioli animali, non premorrebbero a chi li ha messi al mondo. Un incidente, dice Cheng ritraendosi, passandosi le nocche agli angoli degli occhi. Un incidente in motorino. Era uguale al mio, lo indica con un dito. Ma il suo era nero. Erano in tanti. Facevano le corse, facevano le gare. Sono morti in due. Si sono agganciati e poi si sono schiantati contro un albero. Stava bene, adesso. Lavorava. Aveva smesso con le droghe. Aveva smesso anche di bere. Stava bene adesso, lavorava, il motorino l’aveva comperato con i suoi soldi. A rate. Stava bene, lavorava.
Cosa si può dire in una circostanza simile? Qualunque cosa in tema suonerebbe banale, surrettizia, ipocrita. A meno che le dicessi dei miei genitori, di mamma che si lasciò ingrigire e che per anni odiò il sole per la sfrontatezza con cui le sbatteva in faccia la sua gloria; di papà che lasciò tutte le cariche pubbliche e non pronunciò più il nome di mia sorella e ci impedì di pronunciarlo in sua presenza; di entrambi che, per tutto il corso delle loro vite, mai più misero piede a teatro o al cinema. Ma può il nostro dolore alleviare il dolore altrui? E poi, resterebbe il fatto che mia sorella non era figlia unica. Cosa potrei dire a Cheng? Qualunque parola volta a cambiare discorso suonerebbe superficiale, fuorviante e ugualmente ipocrita.
Finisce che restiamo lì a guardarci in silenzio a un metro di distanza, e gli uccelli muti a loro volta.
Non abito lontano, dice dopo un po’.
Neanch’io. Un giorno di questi verresti nel mio bungalow per un massaggio, un massaggio dei tuoi meravigliosi? Giuro che per tutto il tempo terrò il costume addosso, giuro che non ci proverò.
E Cheng, la dignitosissima, massacrata Cheng, fece un gesto eroico: lei sorrise.
Brescia, 24 aprile 2019
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