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TRAFFIC – Romanzo (Prime Bozze)

TRAFFIC – Romanzo (Prime Bozze)

1. L’arcano dondolio della natura curva delle cose e il mito di Godzilla

 

Se l’arte esprime l’animo umano, il traffico lo rispecchia. Quando a Napoli ti serve un’indicazione per la pizzeria migliore del quartiere, fermi la macchina in mezzo alla strada e chiedi. I passanti si faranno in quattro per esserti d’aiuto, e a nessun conducente delle auto che via via si vanno accodando verrà in mente di disturbarti con il clacson. I napoletani sono generosi. E intelligenti. È a loro chiaro che sei ti sei fermato, avrai avuto i tuoi buoni motivi. Buoni motivi o meno, a Milano quando il verde scatta non ti perdonano nemmeno un microsecondo di ritardo. Quando scatta il semaforo, devi scattare anche tu, questa è la logica spietata e poco intelligente delle persone cosiddette razionali. In fin fine tutto quell’accanirsi con il clacson, tutta quella rabbia e frustrazione non produce che altra rabbia e frustrazione. Mors tua, mors mea non è granché come filosofia esistenziale, se non per i killer suicidali da grattacielo americano, per gli automobilisti milanesi e per l’umanità in genere.

Se l’arte esprime le dimensioni dell’animo umano, il traffico ne rispecchia le perversioni. Guidando a Milano così come a Brescia, ho creato strategie di tutela (tuzioristiche, direbbe un notaio) sia dalla mia rabbia sia dalla rabbia altrui. A finestrini chiusi agito le mani all’indirizzo dell’offensore-offeso, emulo l’atto di gridare furiosamente, spalanco la bocca e muovo le labbra al suo indirizzo come gli stessi urlando addosso chissà quali porcherie mentre in realtà non dico una parola, faccio boccacce silenziose con la lingua fuori, distorco i lineamenti in maschere sataniche sempre senza emettere alcun suono, insomma recito la parte che ci si aspetta in un litigio, e dentro di me me la rido a crepapelle. Alla fine il persecutore se ne va sgommando soddisfatto di credermi ferito dalla sua rabbia e da quella che ha creduto essere la mia, se ne va apparentemente ringalluzzito, in realtà avvelenato dalla sua scarica di ormoni tossici noti come adrenalina. Io mi limito a ricomporre i tratti del viso nel loro usuale aspetto pseudo angelico e a sorridere beato come fossi illuminato più che dal Buddha da Lucifero, latore della luce più splendente, ispiratore della conoscenza di sé, in essa inclusi gli ormoni tossici da evitare se possibile.

Napoli, dicevo. L’epistemologia della guida locale la si potrebbe dire telepatica, non fosse per il clacson utilizzato sempre delicatamente, quasi melodicamente, come ulteriore aiuto per comunicare le proprie intenzioni. A Napoli si passa con il rosso, e con il verde si aspetta che quello che sta passando con il rosso sia passato, e nessuno si indigna, si incazza o meraviglia. Se quello è passato con il rosso, avrà avuto i suoi buoni motivi. Il traffico di Napoli è stato oggetto di approfonditi studi antropologici e statistici, la cui sintesi è un dato di fatto semplice semplice. Napoli è la metropoli al mondo con meno incidenti mortali. Perché? Perché l’egregora che governa la circolazione non è la competizione, ma la comprensione. I semafori hanno una funzione meramente indicativa oltre che decorativa, ciò che conta non è il dettato della legge ma trovarsi d’accordo lì per lì su quale sia la decisione più opportuna da prendere insieme tramite reciproci sguardi di negoziazione.

Da questo paradigma discendono due corollari.

Primo, in cui si auspica la proprietà estensiva del Teorema di Napoli. Se quando si tratta di decidere le sorti dei figli ancora piccoli i rispettivi genitori fossero intelligenti quanto lo sono gli automobilisti napoletani, sai che mondo quello delle prossime generazioni!

Secondo corollario: Laddove le prescrizioni si presuppongono universalmente rispettate, gli eventuali danni saranno molto più gravi. Una sera di pioggia te ne stai tornando a casa in macchina da sola. Sei stata a cena al Sushi Yama con Gloria, che malgrado tutto reputi ancora la tua migliore amica. Lei ha bevuto molto, tu niente. Sei astemia di ritorno, frequenti gli Alcolisti Anonimi da tre anni e cinque mesi. Tre anni, quattro mesi e ventisette giorni, a essere precisa. Sei rimasta sobria dalla prima volta che hai messo piede in quella stanza, e fino a oggi non hai avuto ricadute. Gloria ha parlato troppo, tu troppo poco, non ti ha dato spazio. Sei andata via un po’ brusca, tagliando corto, interrompendo i suoi deliri alcolici a proposito di uomini che a questo mondo non esistono, com’è vero che ti chiami Claudia e che sei ancora sobria malgrado tutti i mojito che quella stronza ti ha messo sotto il naso. Metti la palma davanti alla bocca e esali. Il fiato sa di pesce e wasabi. Ancora non ci credi che non bevi più.

È tardi. C’è poco traffico, veleggi sulla tua Ypsilon a cinquanta all’ora, dimentica di Gloria e dei suoi uomini chimerici. Ti abbandoni allo schienale, espiri, ti godi il panorama. Quanto è bella la tua Milano con i suoi viali e controviali alberati, le foglie bagnate, lucenti sotto la luce dei lampioni. Abbassi il finestrino di due dita. Inspiri. Ha smesso di piovere e l’aria è quasi tiepida. Finalmente primavera, la vita che ritorna, come è diversa la calma della sera dalla frenesia del giorno! Filosofeggi, nemmeno te lo poni il dubbio se pensieri simili non siano pensieri già pensati da moltitudini di persone, alcoliste o meno, anonime o meno. Complice la tenerezza della notte ti percepisci unica, speciale. In una lacrima di commosso entusiasmo ti riprometti non appena a casa di annotare i tuoi pensieri sul diario, per poi condividerli domani nella pausa-caffè con la tua sponsor, la tua madrina in Alcolisti Anonimi. Pensi a lei così serena, così calma, e ti senti in pace, finalmente anche tu serena, connessa al mondo dello Spirito, così unita al Tutto che presupponi lo siano pure gli altri, ugualmente connessi, cullati a loro volta da un Potere Superiore, ciascuno il suo. Il semaforo che scatta apposta per te conferma il tuo sentire. Guardi il suo occhio verde brillare nella notte e mormori Grazie Alcolisti Anonimi, grazie Vita! Attraversi l’incrocio senza nemmeno alzare il piede dall’acceleratore, senza nemmeno porti il problema di rallentare, di guardare ai lati. Procedi a cinquanta all’ora, il semaforo indica via libera, perché dovresti rallentare, perché guardare ai lati?

Tra pochi minuti sarai a casa. Chissà se Guido e Nicolò saranno già a letto. Dubiti. Certo, a quest’ora la partita sarà finita da un po’ ma poi ci sono le trasmissioni a margine – e i miei uomini non si perdono mai i commenti degli esperti. Quando perdi conoscenza, hai superato di pochi palmi il centro dell’incrocio. I miei uomini in qualche modo associato a i commenti degli esperti è stato il tuo ultimo pensiero. Un microsecondo prima, hai intravisto una specie di razzo d’artificio puntarti da sinistra, immediatamente dopo hai sentito il botto, uno solo ma tremendo, e come nei sogni dove le percezioni si intrecciano in rimescolii impossibili, quello scoppio è, anche, un dolore al basso ventre, inaspettato e lancinante. Poi più niente. Fossi già morta e fosse vero che hai un’anima, vedresti ogni cosa dall’esterno. Una portiera che si apre verso l’alto – a ala di gabbiano, ti correggerebbe Nicolò; a elitra di coleottero,  lo correggerebbe a sua volta Guido. Comunque sia, la portiera si apre all’insù e vedi un ragazzotto srotolarsi fuori dall’abitacolo. Si mette dritto, quasi dritto, barcolla, si guarda attorno con occhi persi. Si gratta la testa. Zoppicando si porta al muso della sua macchina carezzandone il tetto per mantenersi in equilibrio o forse per amore. Un’auto sportiva giallo-limone. Lamborghini Aventador – preciserebbe Nicolò. Il muso a lama è penetrato nell’abitacolo della tua macchina. Ha squarciato l’airbag laterale e ha squarciato anche te. Ti ha dilaniato il colon, delicato com’è. Una volta tua madre quasi ci restava secca per un attacco di diverticolite, forse ce l’hai anche tu, pare sia una malattia genetica o ereditaria. Non lo saprai mai. Morirai sola, senza aver ripreso i sensi, sul lettino della sala operatoria, mentre cercano freneticamente di ripulirti le viscere dalle feci sparse ovunque e di ricucirti alla bell’e meglio l’intestino distrutto. Guido e Nicolò sapranno dell’incidente qualche ora dopo il tuo decesso, quando avranno riacceso i cellulari al termine delle trasmissioni di commento.

L’investitore ha una caviglia slogata. Resterà in panchina per le prossime quattro giornate, forse cinque. I danni sono incalcolabili sia per la società calcistica di appartenenza sia per le ricevitorie. Armate di scommettitori compulsivi spiazzate dall’imprevedibilità della disgrazia. Il giorno dopo Il Corriere dedicherà mezza pagina alla tragedia del cannoniere (degradato da ubriaco fradicio a alticcio) e due righe anche a te. Claudia Ferreri, impiegata, lascia il marito e un figlio di sedici anni. Da morta sei diventata importante, almeno per Claudio e Nicolò che con gli occhi lucidi leggono insieme la Gazzetta. Nemmeno da morta sai leggere i pensieri di chi ti era vicino. Non saprai mai se piangono te o la temporanea assenza in campionato del loro eroe che hai concorso a azzoppare.

Di recente ho passato qualche giorno a Roma e quanto a traffico (ma non solo a quello) l’ho trovata male. Le innocenti gare di accelerazione che vent’anni fa si scatenavano tra moto e motorini allo scattare del semaforo, sono degenerate in lotte tra gladiatori, in vere e proprie faide più o meno familiari. Oggi il traffico di Roma è accumunabile al traffico del Cairo e a quello di Milano messi insieme, con un substrato spirituale alla Chicago anni Trenta o alla Medellin anni Ottanta. Essenzialmente non si guida per andare da qualche parte. Si guida per uccidere, preferibilmente i pedoni in attraversamento, ma anche gli altri utenti della strada vanno bene purché alla fine muoiano.

A Ko Samui si guida a cazzo libero negoziando come a Napoli, ma con stilemi di scorrimento autoctoni e senza il beneficio del clacson. Il clacson, qui, non è strumento da suonare, ma un violino da collezione da conservare perennemente nella sua custodia per trasmetterlo agli eredi ancora intonso. Uniche eccezioni i taxisti e i conducenti dei tuk tuk che scandendo note brevi e ritmiche segnalano rispettivamente di essere liberi o di avere ancora posti liberi a bordo. Intanto procedono a lumaca mentre il sole dei trentasette gradi cuoce le cervici dei motociclisti al seguito, quasi tutti rigorosamente senza casco, tutti indistintamente intossicati dai gas di scarico, alcuni febbricitanti di lanciarsi in sorpassi temerari, alla Marvel Comics.

Per onestà devo aggiungere che come motociclista costituisco a mia volta un’eccezione all’uso del clacson in un paio di circostanze almeno. Quando all’imbrunire lo suono all’impazzata nella strade secondarie all’indirizzo dei branchi di cani selvatici in procinto di attaccarmi e quando per sentirmi vivo mi scapicollo a morte sulla panoramica Lamai-Chaweng e vedo un turista cieco che tenta l’attraversamento in motorino giusto in tempo per portarsi in rotta di collisione con la mia.

Guidare tenendo la sinistra è facile da apprendere. Basta adeguarsi a essere il contrario di ciò che normalmente si è, uno shift identitario così totale che non può suscitare confusione (più complicato sarebbe dover cambiare mano a tratti alterni). Personalmente la guida a sinistra mi viene talmente naturale che il problema della mano da tenere se mai mi si pone in Italia, quando vedo frotte di auto venirmi incontro e non me ne do ragione, e da italiano, come tutti gli italiani, mi dico che gli italiani sono rimbambiti, tutti quanti tranne me. Poi però, essendo d’indole dubbiosa come pochissimi italiani, mi pongo il dubbio e il dubbio mi salva la vita in uno scarto acrobatico che mi deposita sulla carreggiata opposta dove ho l’onestà di dirmi che il rimbambito sono io.

Tenere la sinistra, dicevo, non è per niente complicato. Ciò che richiede studio e applicazione è l’individuazione della forma-pensiero, della struttura per così dire platonica, che presiede al traffico siamese. Dopo sette anni di semi-residenza sono giunto a credere che il traffico locale assecondi l’arcano dondolio della natura curva delle cose. A fronte dei discutibili prodigi rettilinei di Le Corbusier e delle indiscutibili mostruosità angolari dell’architettura umana (esclusi gli igloo, i trulli, le capanne di fango del centrafrica, gli anfiteatri romani, i maschi medievali, il Duomo Vecchio di Brescia, le tane degli hobbit del Signore degli Anelli), a fronte di tutte le quadrature e squadrature di cui siamo stati e siamo capaci, la natura è per sua natura curvilinea e oscillatoria e seguita pervicacemente a fottersene delle nostre pervicaci linee rette inchiodate lì dove sono come le assi della croce. La natura è curva a oltranza fino alla ridondanza: dal tronco degli alberi alle onde, dalla sagomatura dei pianeti alla forma della testa delle stesse bestie che credendosi geniali seguitano a progettare cubi e parallelepipedi. Scatole. I fumettisti lo sanno bene com’è fatto il mondo anche quando disegnano Paperino. Si tratta di fare qualche serie di cerchi e cerchietti da posizionare al posto giusto. I fumettisti ne sanno più degli architetti perché sanno guardare, il che di regola li rende più intelligenti e più dotati degli stessi architetti, nonché degli assicuratori e dei notai, fatta eccezione per la loro ineguagliabile capacità di scorgere invisibili postille. Analogamente, che il mondo è curvo e non quadrato lo sapeva l’ingegner Porsche allorché disegnò il Maggiolino, capolavoro assoluto nel suo destino personale profumato di benzina e di bellezza.

La Swinging London degli anni Sessanta, anche, potrebbe essere una rappresentazione sinestetica del traffico in Thailandia. O ancora: una sedia a dondolo, una palla, una nenia, un melone, una tetta, una melodia barocca, una finestra di Gaudí.

Milano: un tavolo di marmo, un arto artificiale, un righello, la lingua tedesca, il ciuf-ciuf di un treno a vapore, le rotaie del tram. Una sfilza di entità orribilmente quadre, contro natura in quanto tali.

Guidare assennatamente a Samui significa dondolare, ondeggiare, serpeggiare, oscillare, zizzagare. Andare, sempre, dove si vuole come si vuole in intesa telepatica con tutti quelli che in quel preciso momento procedono sul medesimo cammino e parimenti vanno, sempre, dove vogliono come vogliono. Tutto è concesso, purché l’intento sia evidente e si sia risoluti nel comunicarlo e nel portarlo a compimento. Nondimeno, come a Roma, anche qui il pedone è un bersaglio ambito, un birillo da centrare. Ne consegue che più indeciso è, meno possibilità ha di portarsi incolume dall’altra parte della strada. Non gli resta che aspettare lì dove si trova, arso vivo dal sole, per interi quarti d’ora gravidi di indecisione e di critici tentennamenti.

Risolutezza determinazione imperiosità. Ho visto con i miei occhi certi thai cappellaccio da cowboy e scimmietta culo rosa sulla spalla buttarsi decisi e farla franca come dei Mosé del traffico. Quanto ai non profeti, ai turisti titubanti, non a caso i grandi alberghi si avvalgono della figura istituzionale del vigile privato o attraversatore sacrificale, il quale in uniforme color panna e cappelletto in tinta incede sulla carreggiata armato di paletta luminescente per poi gesticolare all’indirizzo di una torma di storditi facendo loro nervosamente segno di risolversi a attraversare prima che lui stesso ci lasci le cuoia senza nemmeno aver avuto l’occasione di adempiere la sua salvifica missione.

Lo so, sembra esagerato ma è la pura verità, ovviamente intesa come percezione individuale, il cui frutto di sintesi resta però l’unica verità di cui ciascuno a questo mondo è portatore insano. Tant’è che quando l’incidente fatalmente si verifica, le versioni sono tante quanti sono i testimoni, giudici e periti lo sanno bene, il caos regna sovrano, i risarcimenti si aspettano per secoli, e questo è quanto.

Tutto qui è concesso, dicevo, purché il tuo proposito sia saldo e saldamente espresso. La tua sicurezza interiore verrà percepita a livello collettivo, ti lasceranno fare, come lasciano attraversare il thai con il cappello da cowboy.

Ci sono, tuttavia, circostanze e luoghi in cui le certezze svaniscono, le sicurezze svaporano nella fata morgana della calura tropicale. Quel che è peggio è che l’indecisione colpisce simultaneamente tutti gli utenti della strada, e a quel punto l’arroganza si fa avanti a petto in fuori. Penso alle competizioni di motociclisti contromano lungo la Beach Road che invece di proseguire con la cautela che si deve al fatto di essere degli stronzi in torto marcio fanno i matti per superarsi a vicenda lottando con i veicoli che provengono a buon diritto dalla direzione opposta, fregandosene bellamente dei pedoni che in un tocco-rialzo estemporaneo per adulti schizzano di qua e di là tentando di riguadagnare la salvezza sui marciapiedi da cui per altro vengono continuamente respinti a motivo dei relativi ingombri: sedie e sgabelli, bancarelle, masserizie, materiale da lavoro abbandonato, buche, abissi, altro. Penso alla babilonia che ti risucchia alla curva a L del tempio di Lamai, in cui per soprammercato si immette la strada secondaria ma non troppo che porta ai quartieri sparsi nella giungla. Tra quelli che vogliono andare di qui e quelli vogliono andare di là, le direzioni che ciascuno potrebbe astrattamente prendere sono tre considerando gli indecisi che improvvisamente cambiano idea e senza preavviso si tuffano in un’inversione a U, e mentre un autoarticolato affronta la curva sferragliando tampinato da due pick-up rimbalzanti su gomme abnormi, attrezzati per esplorare Marte, ecco crearsi davanti e dietro, a destra e a sinistra dello stesso autoarticolato un pandemonio inestricabile di moto e motorini in febbrile movimento, parecchi contromano e alcuni contro contromano che però non è ancora la mano giusta dato che si fanno breccia tra due file grossomodo parallele di motorini a loro volta contromano. A questo punto ti ritrovi tuo malgrado a vorticare in una giostra rutilante, ti senti a mezza via tra l’insetto parte di un nugolo che si dibatte insieme agli altri insetti nel vortice dello scarico del lavabo e la pallina da flipper che rimbalza in un flipper dove ci sono altre cinquanta palline saltellanti insieme a te ma non proprio come te. È in momenti come questo, sotto il sole tropicale che scortica la pelle, tra i fumi degli scarichi che annebbiano la vista, che mi ritrovo ogni volta a scoppiare a ridere come non ci fosse un domani e non ci fossero polmoni, e finora quel riso spolmonato mi ha tratto fuori dagli impacci alla famigerata curva e mantenuto in vita tutto intero, dopotutto.

Nelle ultime settimane il traffico è triplicato rispetto alle feste di natale. Per andare in macchina da Lamai a Bo Phut, venti chilometri in tutto, ci vuole una buona ora e mezza. In moto invece potresti impiegare meno di mezzora. Ho detto potresti perché il condizionale è d’obbligo per adombrare quel che adombra.

Per esempio, in questi giorni se ti trovi in moto su una strada secondaria e vuoi immetterti sull’altro lato della strada principale, sei, apparentemente, nelle stesse condizioni del pedone che vuole attraversare: o immoto e impotente in attesa di incendiarti, oppure mobile e morituro in attesa di un bagno di sangue, il tuo. A meno che, nel tempo, tu non abbia appreso, osservando i thai esperti del settore, una paio di strategie rischiose ma efficaci. Prima strategia. Immettersi a forza nel flusso più vicino, ossia quello che procede nella direzione opposta a quella che vuoi prendere. Appena guadagnata velocità, segnalare di voler svoltare dalla parte opposta per poi completare la svolta in un’acrobatica inversione a U, ben attento di non avere alle tue spalle qualcuno ugualmente deciso a svoltare ma senza invertire la direzione, altrimenti addio ossa. Opzione B. Procedere all’immissione avanzando contromano sul ciglio della strada, guadagnare velocità sempre sfruttando il bordo-strada come una pista di decollo, trovare un interstizio tra i veicoli che ti sfrecciano accanto nella direzione opposta, infilarsi nella fessura a tutti i costi, quindi portarsi in diagonale fino al centro della strada, valutare negli specchietti la velocità dei mezzi che ti tampinano alle spalle (frotte di moto che si sorpassano a vicenda cercando al contempo di superare tutti gli altri: auto, minivan, pullman, autoarticolati, betoniere, tricicli di ambulanti, bufali alla cavezza, eccetera). Poi. Poi decidere se è il caso di mantenersi sulla mezzeria e lasciarsi superare da sinistra (quando nella guida a sinistra la norma è il sorpasso a destra) correndo però il rischio di impattare nei veicoli in soprasso provenienti dalla direzione opposta, oppure capire in una scintilla riassuntiva di processi mentali estremamente elaborati se il tuo motore ha o non ha schiena sufficiente per sopravanzare gli inseguitori prima che riescano a raggiungerti. In caso affermativo dare ulteriormente gas, avendo però l’accortezza di cedere il passo a un paio di moto senza marmitta, intraviste prima, udite ancora prima, ora impegnate in un duello senza esclusione di colpi dest-sinist-dest-sinist. Se riesci nella tua missione, alla fine ti porti a sinistra, assecondi la velocità del flusso e finalmente sei libero di ballare per celebrare la tua immissione al cardiopalma (o in altri casi un sorpasso complicato anch’esso contromano). Va da sé che gli auricolari o delle buone casse blue tooth ancorate al cruscotto sono un toccasana per ballare con convinzione e mantenere il ritmo ondulatorio di cui si è detto nonché la calma implicita di cui si dirà.

Quando percorro le discese curvilinee senza traffico della panoramica per Chaweng – parlo dei tratti liberi che mi sono conquistato sorpassando l’insorpassabile –, capita che lasci il manubrio, agiti le braccia al cielo e articoli le dita, tutte inanellate come sono. Quando Jumpin’ Jack Flash attacca, eccomi ballare e dirigere il mondo come un Mago. Dirigo il traffico o così mi sembra, di certo ballando dirigo senza mani la moto nelle curve, e lodo i rilievi verdi ancora intatti alla mia sinistra e lodo il mare che striscia in basso sul lato opposto, e trovo bagliori di ispirazione per la scrittura che verrà, e penso a una certa puledra che mi aspetta, una straziante gazzella così morbida e dolce e anacronistica da non avermi dato altra scelta che insignirla del titolo di Vergine di Chaweng. A un uomo difficile si addicono donne facili, la Vergine è perfetta, me la dà sempre senza complicazioni. E se dovessi essere onesto fino in fondo dovrei aggiungere che la ragione principale per cui mi accoppio con ragazze belle come lei è poterne scrivere, poi, dato che l’essere un esteta e un porco, prima e durante, non varrebbe, di per sé, il sacrificio e la fatica. Resta il fatto che l’amore di un’ora è per quanto mi riguarda il solo amore vero, scevro com’è dalle complicazioni di passati e futuri inaccettati, inaccettabili o entrambe le cose.

Sempre con le braccia al cielo, non perdo mai di vista il panorama né l’aquila di mare che volteggia alta sopra il mare di là della strada quasi alla mia altezza, quasi al mio fianco. Dall’altra parte noto che il palmeto raso al suolo tempo fa ha lasciato il posto a un cubo di cemento e vetro: Clinica Estetica, recita la cromatura dell’insegna nuova di zecca. Palme da cocco. Esseri viventi elegantissimi, elusivi come danzatrici siamesi, alberi sinuosi e filiformi che per niente in cambio ci offrono il loro sangue trasparente, sterminati con i dozer per vendere a caro prezzo culi e tette artificiali da applicare a milf cafone decadute e pendule. Per non piangere da qui alla morte, per non fermarmi e dare fuoco alla struttura, pondero che c’è materiale sufficiente per scrivere una nuova trilogia, un romanzo quanto meno, e già sono lì che penso al titolo. Ma un neurone specializzato mi segnala un minivan in sorpasso disperato condotto da un autista evidentemente sotto anfetamina che due secondi dopo come previsto mi punta come non esistessi malgrado tenga gli abbaglianti accesi giorno e notte (non accecano, guardano in basso). In un moto rotatorio delle braccia riporto le mani sul manubrio e in una flessione del mignolo (ogni grammo spostato durante la guida della moto ha il suo peso e il suo perché) conforme a uno slombata morbida dell’anca, inclino la struttura tubolare del telaio all’interno della curva, lavoro chirurgicamente di pinze e gas, imprimo alla doppia piastra della forcella idraulica le forze necessarie per mantenere la moto connessa a me e all’asfalto devastato e ricondurla all’arcano dondolio della natura curva delle cose lungo la traiettoria più elegante per evitare di impattare l’arco di curva troppo aperto che il minivan ormai contromano va percorrendo al solo scopo di piombarmi addosso. Per essere veloci bisogna essere eleganti come palme e per essere eleganti bisogna essere lenti sempre come palme nel processare scrupolosamente e precipitevolissimevolmente gli algoritmi più consoni alla situazione del momento (eccola, la calma implicita). Ciò significa qualcosa di più che essere semplicemente lucidi, ne dirò tra breve. Resta il fatto che per guidare la moto, qui e ovunque al mondo, non basta l’esperienza, fosse anche un’esperienza cinquantennale. Averla fatta franca per mezzo secolo non significa farla necessariamente franca per il prossimo mezzo (nemmeno per i prossimi tre secondi, se è per quello). Ci penso ogni volta che monto in moto, perciò sempre mi tocco riverenzialmente sotto mentre porto la gamba destra sopra per ruotarla oltre la sella. Essere apotropaici è imperativo. Ogni chilometro, ogni metro, ogni centimetro non ancora percorso può segnare il momento del memento. Non c’è correlazione tra un lancio di dadi e l’altro, a meno che siano truccati. Non c’è correlazione tra un giro in moto e l’altro, neanche se è truccata. Per guidare la moto, occorre, anche, avere incorporato nella testa un radar percettivo molto sensibile, un radiolocalizzatore analogo a quello che utilizzano le donne quando girano la testa nel momento stesso in cui si sentono osservate financo alle spalle. Allegoricamente: per andare in moto bisogna essere maghi cinti da una corona di occhi spalancati. Inquietante a immaginarsi, ma è così.

Maghi. Meglio dirlo in caratteri minuscoli, maghi. Per quanto mi riguarda, sono il mago magro, sì, ma solo per gioco. Scrittura a parte, l’unica magia di cui mi riconosco capace è quella di illudere me stesso più ancora degli altri, pollastri o pollastre che siano. Ogni tanto ci ricasco, non nei pollastri idioti che credendosi furbi credono di aver saputo approfittare della mia generosità che in quanto tale è qualcosa che do via proprio perché il beneficiario, idiota o meno, ne possa approfittare. Lo stesso vale per le pollastre che, anche se a loro volta idiote al punto di scambiare la mia munificenza per stupidità o, peggio, per amore nel senso pessimo da loro inteso, sono esse stesse a loro insaputa per me la miccia di qualcosa e la via di fuga da qualche altra cosa connessa o meno a quel qualcosa di cui non so granché, se non che è vago e vaga. Con ricascare intendo, qui, cadere nel mio torbido vuoto, dentro un abisso bianco senza fondo, alla ricerca di una soluzione a un problema che non c’è.

C’è però il danno. Il danno di essere vivi, sopravvissuti a quelli e a quelle che abbiamo amato. Il danno di essere sopravvissuti, anche, a noi stessi, più e più volte, in occasioni le più diverse, la mia prima quando avevo zero anni, zero ore, zero minuti, e venivo al mondo bell’e impiccato. Prima e ultima volta in cui, seriamente, ho tentato il suicidio. Il suicidio. Solo i vecchi molto vecchi dovrebbero pensarci e solo come rimedio agli sbriciolamenti della vecchiaia. Quanto a noialtri adolescenti della quarta età, giacché siamo in pista, balliamo. Balliamo sempre, soprattutto quando andiamo in moto, benedicendo quel dannato vuoto! Non ci fosse quel buco che ritorna, non ci sarei nemmeno io: quel buco sono io. Sono niente e sono nessuno e sono memore di esserlo, perciò non sono pazzo, non del tutto quantomeno. Niente di unico e speciale, uno stronzo come gli altri, in fin fine sono un cazzo. Ma la mia storia personale, quel lutto eterno di cui di tanto in tanto mi dimentico, la mia impiccagione al cordone ombelicale, la mia sorellina morta in un incidente stradale, morta eroicamente a modo suo, per salvare un cane, lei che diceva che per un cane avrebbe dato la vita, per un cane alla fine la vita l’ha data, e a noi l’ha tolta, la vita: papà, mamma, noi fratelli, attoniti, furibondi, raggelati, sgomenti, schiantati a vita per la vita, irrecuperabili fino alla morte. Papà in lacrime, il mattino dopo, nel letto d’ospedale con la mandibola fracassata immobilizzata da una cucitura interdentale, quasi impossibilitato a parlare, senza altri danni visibili, ma con dentro un danno senza fondo tutt’altro che invisibile quando strappa il giornale di tasca a un amico in visita e scorge il titolo dell’articolo che lo riguarda, che ci riguarda, e scuote il testone e scoppia in un pianto dirotto e riesce anche a dire qualche parola. Proprio adesso che ci eravamo capiti, proprio adesso ci eravamo capiti, dice, doveva investirlo quel dannato cane. Soltanto moltissimi anni dopo da un amico di mia sorella anche lui a bordo di quella macchina insieme a mio padre e alla promessa sposa di mio fratello, pure lei provvidenzialmente indenne, anche lui, l’amico sano e salvo come gli altri due, da quell’amico vengo finalmente a conoscenza di quanto è accaduto dopo. Quello che gridava Bisogna far qualcosa, facciamo qualcosa, era lui, l’amico, mentre papà, scuoteva la testa e diceva Vittorio, l’abbiamo persa, l’abbiamo persa, e lo diceva in dialetto, lingua che papà utilizzava di rado. L’om pirdìda, l’om pirdìda, diceva papà, e proprio ora che per la prima volta nella vita scrivo apertamente di questo, piango a mia volta un pianto vanitoso e disperato che mi connette a papà ovunque sia, senz’altro qui, nel mio ricordo e nel mio sangue. Per non parlare di mamma. Lei ha la fede, diceva papà in tono neutro, come dicesse che mamma con quel suo sguardo pietrificato e il passo irrigidito avesse l’artrosi addosso anziché la disperazione dentro, fede o non fede. Mai mio padre mi è risultato eroico come quando, molti anni dopo, apparentemente in procinto di morire nella stanza di un altro ospedale, si fece avanti un prete e lui gli disse Se ne vada, via via, e fece sciò sciò con la mano come faceva con le mosche o con me quando lo esasperavo. Morì due anni dopo e nessun prete osò più farsi avanti, prima.

Quando ricordo e sento tutto questo e altro ancora che non sto a dire, penso che tutti quanti a questo mondo abbiamo un passato più o meno doloroso, più o meno schifoso, nessuno è unico e speciale, tutti sulla stessa barca, tutti nella stessa bara, e penso a come sarebbe saggio se non lo dimenticassimo ogni tre minuti e ci schifassimo un po’ meno l’uno dell’altro, anche se in quanto umani facciamo schifo tutti quanti.

A morte i profeti della New Age: altro che spiritelli vagabondi! Ciò che fa di me me e di te te è il corpo. Altro che essere nel qui e ora! Ciò che fa di me me e di te te è il passato. Senza corpo e senza passato, io e te saremmo uguali, due nullità in quanto tali identiche. Tanto è vero che è proprio quando dimentico la mia compagine narrativa, quando dimentico tutto questo passato che provvidenzialmente non passa mai, quando dimentico mia sorella e dimentico Enrica, il mio amore, morta a ventun anni come mia sorella, morta di overdose o forse peggio (nessuno sa cosa sia successo di preciso in Africa quella notte), quando dimentico il dolore del mio piccolo mondo, quando dimentico il traffico mentale che a quel dolore si accompagna, allora arrivano i tormenti della perdita vera. Perdendo la narrazione di me perdo anche la memoria di me, il niente che sono, mi credo un qualche tutto che sa tutto, che può tutto, un Mago dimentico di sé, in grado di cambiare, quando a tratti in quelle condizioni ne torna la memoria, la mia mediocre storia personale. Riportare in vita ogni persona amata e stringerla come farebbe un angelo. Ma lo sa anche il Mago che non ci sono angeli, non ci sono cazzi né illusioni; eppure di cazzi e di illusioni tutti quanti ci nutriamo, è questione di sopravvivenza e la sopravvivenza non asseconda le ragioni della logica, nessun uomo può sopportare tutta la verità sul suo conto senza impazzire, lo dice implicitamente Nietzsche e Nietzsche impazzito ne è la prova; è solo quando, a un certo punto, dopo giorni di tormento, caparbiamente sobrio, sempre lucido benché perso nella mia follia, dopo giorni in cui anche la luce è nera, angoscia cui non so dare un nome o cui ho dato troppi nomi, abisso bianco, vacuità, vertigine, maledizione, vortice, che guarda caso però ogni volta passa, risucchiato nel passato come ne è risucchiata la tempesta. Vanità vanità vanità; vanità al lavoro per farmi sentire unico e speciale, magari dicendomi gravido di un nuovo romanzo, io che non sono niente, né unico né speciale come non lo è nessuno al mondo, è solo quando, dicevo, a un certo punto, raggiungo il punto oltre il quale resta un punto solo e solo quello che un istante prima di affogare nel mio brodino di banale vanità qualcosa scatta e mi fa tornare, e propiziamente ricomincio a ricordare chi sono, chi sono sempre stato, chi sempre sarò. Niente di niente, altro che Mago!

Altro che Mago e mago, banale scrittore. Scrivere trasforma l’impossibilità di vivere in possibilità di esprimere la vita. Allo scrittore non è dato di viverla, la vita, se gli va bene può riuscire a replicarla, e forse è così anche per gli altri, scrittori e non scrittori. Resta il fatto che, essendo niente, l’unica vita che a me interessa vivere è la vita scritta. Ma anche queste sono mezze verità, frasi a effetto, banalità infiorettate. Eppure tutte le volte che mi sono deciso a cercare di vivere come vivono tanti altri o di vivere al contrario di come vivono tanti altri (che poi è lo stesso), ogni volta ho constatato che più maschere indosso, più sono me stesso, un niente a perdere con il vuoto dentro e il sorrisino di culo fuori, e ogni volta sono tornato al mio niente di partenza dicendomi che banalità per banalità, tanto valeva la banalità della scrittura, meglio scrivere che vivere.

Del resto, con l’atto di scrivere mi illudo di fare ordine nel piccolo mondo antico che ho in testa, quando invece l’atto di vivere mi getta sempre in confusione. Ma quando guardo il mare come adesso e penso di scrivere un racconto sul traffico, confesso che vorrei guardare il mare come non avessi alcun passato, senza narrazioni che si spacciano per me che sono niente, vorrei guardare il mare come guardassi il mare per la prima volta, la sua luce soprattutto. Penso a come mi sentirei se vedessi per la prima volta queste fiammate del mattino che bruciano gli occhi fino al nervo ottico. Se avessi la vista vergine di un primitivo che non ha mai visto il mare, cosa direi? Forse mi limiterei a chiedermi cosa succede. Poi, per rassicurarmi dal senso di terrore, probabilmente mi direi Ecco, è il dio sole che bacia il dio mare; poi, dopo qualche millennio, un tipo fantasioso come un altro potrebbe saltar su a dire Ma quali dei e dei, è solo un fenomeno naturale, la luce si rispecchia nell’acqua, tutto qui. Non ci sono dei, direbbe, ma un unico dio che ha creato il cielo e la terra e i mari in meno di una settimana, e il settimo giorno si è riposato, direbbe quel tale. E per diversi millenni la sua spiegazione non meno ascientifica del dio sole e del dio mare verrebbe creduta come vera, e quel dio sarebbe adorato come unico dio, fatti salvi gli dei competitori al vertice di altre dottrine che verranno addotti a scusa per le guerre religiose conseguenti, inoppugnabilmente non molto intelligenti. Ma quando mai lo siamo stati?

Forse, invece, dopo quello sguardo primitivo, non direi niente perché non saprei parlare e perciò non saprei pensare. Invece sono qui che guardo il mare, e penso senza parlare. Penso a un romanzo sul traffico visto come lo vedo e visto con gli occhi della mente, allegoria di ciò che non rimbalza sulla retina ma picchia sui nervi, e penso che da un momento all’altro tra le bottiglie galleggianti Venere verrà alla luce partorita dalla spuma, e penso che un pensiero analogo ma scevro di rifiuti plastici doveva essere presente nella testa di Botticelli quando immaginò il plastico dipinto prima di dipingerlo. Penso a Godzilla che all’improvviso emerge dalle acque e si erge all’orizzonte, e il suo testone, lo vedo chiaramente, già lambisce le nuvole. Prima di dedicarsi al banchetto terminale, all’ultima cena di salvezza universale in cui consumerà tutta la carne umana reperibile al mondo per poi morire di indigestione vomitando miliardi di persone spappolate, a mo’ di stuzzichino addenta al volo un aereo passeggeri in fase di atterraggio. Con le dita unghiute squarcia la carlinga e si porta alla bocca i membri dell’equipaggio mescolati a manciate di turisti che chissà perché immagino cinesi, quando Godzilla è di origine giapponese. Proprio come quelle moto truccate, quelle due tempi estinte ovunque e poi risorte per metempsicosi solo qui a Samui, quei Kawasaki di piccola cilindrata con motori a miscela elaborati, resi potentissimi, con le ruote originali sostituite con ruotine alte e sottili, da bicicletta, cavalcati da ragazzini thai che li spingono furiosamente fin quasi a duecento all’ora in tratti dove io stesso ho paura a sfiorare i centoquaranta. Quei Kawasaki sono veri Kawasaki, l’archetipo del Kawasaki, direbbe Jung, il Kawasaki delle origini, tutto motore, niente freni. Mi sono riproposto di provarne uno, un giorno o l’altro. Mi sentirei meno in pericolo a guidarlo di quanto non mi senta in pericolo quando uno di quei diavoli mi sorpassa scalpandomi le tempie. Questi sì che sono pericolosi. Più pericolosi, forse, i turisti che non hanno mai messo piede su una moto in vita loro e arrivati a Samui vogliono sentirsi centauri come gli altri. Centauri cui dovrebbero tagliare la testa prima ancora di ficcargliela a forza nel caschetto, altro che noleggiargli il motorino! Quando li incontri sulle stradine secondarie, di norma ti puntano procedendo contromano. Gli fai segno. In un timido sorriso di scuse si portano sul lato che gli compete utilizzando una congerie di modalità blasfeme, a cominciare da questa che le abbraccia tutte. Il conducente (di norma è un lui) agisce sul manubrio, lo gira di brutto, quando tutti sanno che il manubrio si usa solo per fare manovra quando si è fermi. Quando si cammina su due ruote si usa il corpo così come quando si cammina sulle gambe che guarda caso sono a loro volta due – il che rende la moto, solo la moto, antropomorfa. Il manubrio non è un volante in versione segmentale. Quando vai in moto, il manubrio non lo devi girare. L’auto si guida con tre dita girando il volante di qua e di là, possibilmente dandogli un senso. La moto non va guidata con le mani, va scopata con tutto il corpo, possibilmente con tutti i sensi, e questo è tutto. Dato che il turista ha girato il manubrio a cazzo, come già detto, eccolo perdere l’equilibrio, posare i piedini infraditati, darsi da fare zampettando come un gallinaceo per tener su il motorino, se stesso, e quel baule di compagna terrorizzata che si porta appresso.

I pericoli sono tanti: stando alle statistiche, a Samui si conta una morte al giorno provocata da incidenti stradali. Se ti imbatti in un incidente, la sola cosa da fare è chiamare l’ambulanza, se altri non hanno ancora provveduto. Mai offrirti di prestare aiuto, mai fermarti se l’incidente riguarda solo dei locali. Se lo fai, verrai ritenuto responsabile di averlo provocato. Perché? Perché per statuto esistenziale, biglietto aereo incluso, tu hai disponibilità economiche che loro nemmeno si sognano. La Napoli del dopoguerra insegna. Per tirar su qualcosa da mettere sotto i denti, buttavano i bambini sotto le auto di passaggio. Maledetta la miseria e maledetti noialtri umani disumani che ne tolleriamo l’esistenza!

Bottigliette di plastica che galleggiano là dove la dea della Bellezza è venuta la mondo, un palmeto sterminato sterminato per far posto a uno spaccio di tette al silicone. Stramaledetti umani, estinguiamoci domani! (Godzilla, pensaci tu!)

Per quel che vale, è questa, non un’altra, la mia maledizione oggi, la preghiera più sentita come scrittore e come uomo, mago o non mago, in ogni caso magro.

 

 

Lamai, Samui, Th, 18 febbraio 2019

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5 Commenti

  • Alice Ranzanici Posted 23/02/2019 9:54

    Eccezionale, straordinario, di grande consapevolezza.

    • Giulio Ranzanici Posted 23/02/2019 10:22

      Grazie mille!

  • carlo Posted 25/02/2019 18:20

    Caro Giulio, come sempre stupe-facente! alcuni passaggi così lucidi da incasinare la vita di coloro che si credono qualcuno o qualcosa,e, per altri, una leggera sensazione di similitudine subito negata dall’evidenza romantica… molto amore per te!

    • Giulio Ranzanici Posted 26/02/2019 1:15

      Grazie caro. Ricambio con l’abbraccio l’amore.

  • Antoine Gilbert-rocchi Posted 27/02/2019 12:14

    Caro Giulio o Giulia..,si puo’uccidere stupidamente altri umani,averne la cosienza e’fonamentale

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