fbpx

Un altro cantico

Un altro cantico

[Giorni fa parlando di poesia con un caro amico, cito De Andrè quando dice che dopo i quindici anni le poesie le scrivono o i geni o gli idioti, e io non sono un genio diceva, e ne rideva. Se valeva per De Andrè, figuratevi per me. D’altra parte, il cantico che segue, più che poesia, è prosa, premeditata prosa. Fate vobis.]

 

Un altro cantico

 

Desidero innalzare le mie lodi al cielo e ringraziare

la legge immutabile che fa germogliare il seminato,

il programma universale di un potere superiore,

o di più poteri superiori, forse del nulla, forse dell’amore,

per le molteplici manifestazioni della vita planetaria,

 

per il mare della terra

che è una lastra di malachite liquida

verde compatta e profondamente nera,

per le albe a San Felice e i tramonti a Raway Beach,

per il cervello umano che imbroglia la realtà

e per il cuore che è fulmineo nel comprenderla,

per la curiosa commistione di cuore e di cervello

che di nuovo complica la vita,

 

per la gioia di Gandhi G.

che ha saputo fare

ciò che ha sempre sostenuto,

per il martirio di Kafka,

per la sua gloriosa morte

quando pregò il medico di rimanere

per dirgli poi che adesso era lui che se ne andava,

per la poesia di Proust,

premeditata prosa,

 

per il letto del mare,

da dove alzando gli occhi al cielo

la luce brilla oltre lo spessore minerale

di un aspro miele verde e giallo,

per lo squalo balena

che ci dà ragione di pensare

che la forza viene dalle cose piccole

come il plancton e le particelle in sospensione,

 

per il dono della notte e per il sonno

che ci consente di fuggire da noi stessi

per divenire ciò che siamo,

 

per ciò che sono e sono sempre stato,

 

per il sole che non può guardarci

perché accecato dalla sua stessa luce,

per la luna che parla

a poeti lupi visionari,

per il canto degli uccelli

e quello dei Pink Floyd,

per l’India Air e il suo aroma di gas al kerosene

misto curry e cardamomo,

per le motociclette cavalcate da artisti cromati e filiformi,

per le capre a San Gottardo e per il caprone

che è il diavolo soltanto per chi ha il diavolo negli occhi,

per l’arte di tessere relazioni umane

e di saperle sciogliere,

per l’amore che ci fa comprendere tutte le creature,

per San Francesco, Withman e Borges che mi hanno preceduto

in questa responsabilità personale e cosmica

verso sé e verso l’universo,

 

per i figli e per le figlie,

per mia figlia e per il parto di mia figlia

che è stato come un uragano,

per i parti delle figlie e i figli delle figlie,

per Giulio Lupo che è come un figlio,

ma non è figlio e nella luce supera un figlio.

 

per le amanti e per le amate

che di notte sciolgono le gambe accanto a noi,

per la gioia di accogliere i dispersi e i naufraghi

sulle rive di un enigma da scoprire insieme a loro,

per la babele di lingue che incrociano il pianeta,

per il dono ambiguo della parola

che seduce incanta tradisce e consola,

 

per i dinosauri la cui mole superiore

ci dice che comunque tutto muore,

per gli uomini oceanici

di Atlantide e di Mu,

per le colonne sovrumane di Karnak

dalla pietra rossa di sale

impastato con il sangue di faraoni e schiavi,

per il tempio di Apollo sulla costa di Apollonia,

per il santuario di Iside

a Delos

davanti al quale per pudore tra i turisiti mi sono denudato,

per il Borobudur di Java e la saggezza dei buddisti senza dei,

per la fantasmagoria indù dai 33.333 dei,

per le città invisibili del memorabile Calvino,

per i versi scandalosi ed epifanici

di Archiloco che in battaglia abbandonò lo scudo

per poi giacere sprofondato nella sua Neobule,

il cui nome fa pensare

a quell’erbetta siamese nota come Lemon Grass

che a stringerla tra i denti ti trasporta in epoche remote

dove i re d’Oriente visitano il loro regno a dorso di elefante

accomodati tra i serici cuscini di palanchini intarsiati come filigrane,

dove la foresta pluviale è giungla misteriosa,

dove le tigri hanno le zanne lunghe come coltelli e si accucciano nell’ipertrofia delle felci primordiali quando fiutano l’odore degli elefanti,

dove le donne sono di pelle olivastra e fiere e flessuose come felini estinti e portano cavigliere tintinnanti quando camminano e bracciali parimenti tintinnanti quando si masturbano,

dove gli indovini leggono il futuro nel fondo nero del firmamento,

dove la Thailandia è Indocina, è Siam,

dove i bambini chiamano le madri Mè e le madri chiamano i figli Lu,

 

per la relatività del tutto che rende tutto relativo,

per i nostri occhi colorati che non vedono il proprio colore,

per gli specchi

che ci danno immagini di altre immagini,

per gli specchi contrapposti

che moltiplicano le immagini fino alla vertigine,

per gli specchi capovolti

che non capovolgono l’immagine riflessa,

per gli specchi appesi nelle case vuote

che non sapremo mai quali immagini riflettono,

per il samsara della terra,

per i nostri errori,

 

per un mattino luminoso di trentacinque anni fa

e i fiori gialli raccolti con mia madre,

per gli elefanti di Annibale la savana e i cieli d’Africa,

per i banani le risaie e gli aromi indonesiani,

per tutte le cucine della terra,

la Thailandese in testa,

 

per le sigarette che ho fumato

e per quelle che ancora ho da fumare,

per l’inglese che si parla a Londra

per l’italiano di Firenze Siena e Napoli,

 

per il letto, sublime prodigio tecnologico

di tutte le tecnologie vicine all’uomo,

per il sogno che è un dio che tutto crea

e al quale come a un dio tutto ritorna,

per Kandinskij che ha trasposto sulla tela

ciò che da sempre fa la musica:

comunicare tutto senza dire niente,

 

per i cinque sensi dell’uomo,

per il sesto senso,

e per il suo non senso,

per la tragedia umana

e per la sua comicità,

 

per lo zaffiro il turchese e il lapislazzulo,

per i tremila azzurri di cieli e mari,

per l’argento l’acciaio il ferro e il cromo,

per il tabacco e i fiori rosa dell’acacia a luglio,

per la magnolia la rosa il gelsomino,

per il mercurio e per la seta,

e per i moti ondosi di mercurio e seta,

 

per questi versi

che mutano in ragione di ogni singola persona,

per i Magi guidati da una stella nella notte

fino ai piedi di una stella in terra –

la narrazione è una bugia ma per Giulio Lupo e con Giulio Lupo

vale la pena di fingere di crederci –

per il latte maschile che genera creature

e per quello femminile che le nutre,

per Nietzsche e i suoi fasci di luci crude e mobili

che non rischiarano il mondo ma lo disvelano,

 

per Jung che superò gli scogli dell’analisi

per approdare fatalmente alla magia,

per gli scrittori cerebrali sudamericani,

per i costumi esotici,

per Venezia città linfatica,

 

per l’Oriente

e per l’Occidente,

 

per la pioggia che annuncia il temporale

quando goccia a goccia frigge sull’asfalto,

per le eclissi di sole

viste attraverso il buchino di una foglia,

per le comete mai viste

perché sfiorano sempre l’emisfero opposto a dove siamo,

 

per l’infinito di Leopardi,

e per l’universo intero che forse sta davvero

tutto nel dente cariato di un gigante,

 

io ringrazio e lodo il nulla, forse l’amore, per i suoi doni.

 

 

 

Brescia/S. Felice del Benaco, 20/23 luglio 1996 – Monte Maddalena, 14 ottobre 2018 – Onde rosse, Roma 1998

© 2018 by Giulio D.M. Ranzanici – All Rights Reserved

Aggiungi commento

Your email address will not be published. Required fields are marked *