Quando Hemingway visitò l’Italia ebbe a dire al riguardo due cose intelligenti (assai più dei suoi illeggibili romanzi – se siete interessati alla letteratura americana del Novecento, buttate Hemingway, e leggete John Fante, divoratevi tutto Fante, scrittore misconosciuto ai suoi tempi, oggi conclamato dalla critica universale come il più grande narratore yankee del secolo scorso).
Hemingway, dicevo – due cose interessanti.
La prima: Gli italiani non sono un popolo, sono una collezione. Constatazione che mi diverte portare alle estreme conseguenze: Tre italiani, cinque opinioni.
La seconda (inerente al tema della nota): Metà degli italiani scrivono, l’altra metà non leggono (passatemi la sillessi o concordanza a senso, non saprei dire se hemingwayana o mia).
Forti di questa Verità – colpo di genio di Hemingway, forse l’unico – prima di tuffarci nel very core dell’argomento, facciamo un passo indietro esplorando in un flash back un episodio cruciale dell’infanzia di un gigante tra i giganti russi. Quand’era bambino – racconta Nabokov (cito a memoria) – fu la morte del padre la prima occasione di confronto con la misura e l’orrore della vocazione scritturale. Un mattino – scrive in quel superbo saggio noto come Lezioni di Letteratura – un mattino una serva si affacciò alla balconata interna di casa Nabokov gridando tra le lacrime: Il signor Vladimir Dmitrievič è morto! In quell’istante la testa, il cuore, l’anima del piccolo Vladimir si spaccarono in due: da un lato c’era il bambino sgomento per la morte del padre, dall’altro lato c’era lo scrittore in nuce, sedotto da quella frase urlata – Il signor Vladmir Dmitrievič è morto! –, che con il cuore gonfio di entusiasmo e di felicità pensava: Che meraviglioso incipit per una commedia!
Grazie alla confessione di Nabokov, è facile comprendere che cosa sia uno scrittore. Un essere duplice e spezzato. E – anticipiamo – in molte più parti di quante fossero quelle che in quel fatidico momento componevano Vladimir, un semplice bambino, se non un bambino semplice (poliglotta dall’età della parola, padroneggiava il russo, il francese, e naturalmente l’inglese, lingua in cui raggiunta l’età adulta scrisse i suoi capolavori, Lolita in testa).
Lo scrittore: un essere spezzato, dicevo, tra il suo essere uomo e il suo altrettanto suo essere scrittore. Perché la scrittura, che per brevità nel titolo ho definito lavoro, e che per attirarmi le vostre grazie ho qualificato sporco, è tutto meno che lavoro: è una condizione esistenziale dell’essere, né più né meno come lo è (o dovrebbe esserlo) la condizione umana. Sicché lo scrittore – piccolo o grande non conta, ciò che conta è che scrittore sia – è un uomo che vive e convive (di norma, piuttosto male) con due nature, le quali naturalmente, sono a loro volta frammentate, ciascuna a modo proprio, in una molteplicità di parti e particelle stratificate a livelli diversi dei piani di realtà e d’immaginazione in cui si forza a vivere. Evitando di approfondire ovvie considerazioni sui tentativi di psicanalizzare gli scrittori (inutili quanto cercare di costruire scale con la sabbia) e prima di addentrarci nella felice Allegoria della Cipolla, torniamo a Nabokov e alle sue Lezioni.
Uno dei saggi che le compongono è interamente dedicato alla struttura narrativa de Lo strano caso del dottor Jekyll e di Mr. Hyde. Naturalmente tutti sappiamo che Mr. Hyde è il cattivo, ma troppo cattivo cinema ha portato molti a credere che il dottor Jekyll sia il buono, il che è una banalità e una stronzata, che sminuisce Stevenson degradandolo a sceneggiatore di film horror di serie C. Ça va sans dire che il suo genio era anni luce lontano dal manicheismo di facile presa sul vasto pubblico. (Si noti per altro che la versione pervenutaci de Lo strano caso è edulcorata rispetto all’originale, scritta di getto da Stevenson dopo un incubo in cui gli si era dipanata davanti agli occhi – chiusi – l’intera storia. Quando lesse il manoscritto alla moglie, questa, inorridita, lo buttò nel fuoco – non aggiungo altro, fate voi, vi prego, perché al posto di Robert Louis io avrei buttato nel fuoco anche lei. Fu così che a Stevenson toccò di scrivere il romanzo da capo, e di riscriverlo epurato dagli eccessi truculenti della sua natura onirica di Scorpione della Terza Decade (era nato di novembre, il 13), la più cupa e tenebrosa. – Aggiungo per par condicio (che par par ma par mai è) che la moglie di Tolstoj copiò in bella grafia le ultime stesure di Guerra e Pace per tre volte consecutive. Santa subito!).
Nabokov, dunque, da vero russo (il cliché del russo vero lo vuole matematico e scacchista, provvisto di una testa a conformazione geometrica e simmetrica – per inciso, Nabokov fu entomologo di notevole spessore, i suoi scritti in questo campo brillano per rigore e tecnicismo, tanto che nel 1940 ricevette l’incarico di organizzare la collezione di farfalle al Museo di Zoologia Comparata dell’università di Harvard), da vero russo, nelle sue Lezioni di Letteratura, Nabokov analizza la struttura narrativa de Lo strano caso del dottor Jekyll e di Mr. Hyde, mettendo in luce la progressione ortogonale degli io-narranti del romanzo così come emergono strato dopo strato, analogamente a quando si pela una cipolla, anello dopo anello, mostrandoci come l’organizzazione de Lo strano caso somigli non tanto a quella delle rocce sedimentarie, nelle quali le varie falde si formano l’una sull’altra sovrapponendosi per accumulazione, ma piuttosto, all’architettura delle matrioske, quelle bamboline (guarda caso russe) di diverse dimensioni che vivono racchiuse l’una dentro l’altra, come i pensieri paranoici. Salvo che, a differenza di cipolle e matrioske, gli io-narranti di Stevenson non sono disposti in una configurazione concentrica quanto piuttosto eccentrica o ellittica, come i pensieri massimamente paranoici. Oltre non posso spingermi, fin qui ho citato a memoria quanto ricordo di quelle pagine sublimi, lette e studiate una decina d’anni fa e inopinatamente prestate e perciò perdute per sempre insieme al resto del libro, naturalmente introvabile.
A questo punto la domanda che da lettore mi porrei al posto vostro è: perché tutta questa sbrodolata su Nabokov e Stevenson?
Perché ciò che mi propongo, qui, è di mostrarvi in modo rigorosamente ascientifico la complessità della testa dello scrittore (di qualunque scrittore – ma già che c’ero ho voluto tirare in ballo delle belle teste). Ecco, cerco di mostrarvi il funzionamento dall’interno, perché il funzionamento esterno, come lettori, già lo conoscete attraverso le opere.
Chiunque l’abbia letto riconosce l’autorità di un Balzac, ma nessuno, se non un altro scrittore, un poeta eccelso come Baudelaire, avrebbe potuto carpirne e dichiararne la grandezza in parole altrettanto semplici e profonde: Nei romanzi di Balzac anche le serve hanno il suo genio.
Ciò che distingue un aforisma o un’illuminazione da un pregiudizio sta nel processo di elaborazione mentale a monte dell’assunto. Quando Proust nell’ultimo volume della Recherche dichiara alla fine di un’articolatissima disquisizione di tre o quattro pagine (una disquisizione organica, avrebbe detto lui) che Scrivere è tradurre, siamo agli antipodi dello slogan o del pregiudizio che per sua natura manca di struttura (e materia) cerebrale procreativa (per esempio: i neri puzzano). Il libro è già scritto, dice Proust, compito dello scrittore è tradurlo dal nulla indifferenziato (e inconscio) dove giace alla realtà della pagina scritta. Tale intuizione va ben al di là dell’ambito letterario perché mutatis mutandis riguarda la realtà tutta. Il campo indifferenziato di possibilità, il nulla quantistico di cui parlano i fisici da un centinaio di anni è il non-essere parmenideo da cui l’essere emerge, perciò un non-essere gravido di potenzialità, di cose, di vita. Un utero. Analogamente, è dal non-essere che lo scrittore attinge. E questo fa di lui un grande (come Proust) e al contempo un miserabile. Perché lo scrittore sempre convive con la sua duplice natura, quella umana e quella scritturale, l’una sembrando costruita ad arte per sabotare l’altra e viceversa. La Yourcenar, per esempio, racconta di come durante la gestazione delle Memorie di Adriano avesse girovagato per giorni e giorni a caccia di ispirazione per i musei di Roma aggirandosi in lacrime tra i busti degli imperatori in preda alla disperazione dello scrittore che non scrive.
Borges – tornando al nulla indifferenziato da cui ogni opera emerge – parla della Biblioteca Universale, il compendio astratto ma reale di tutti i libri che furono e saranno scritti. I Richi Vedici parlano di Akasha per indicare il luogo non fisico ma reale dove qualunque evento azione parola emozione pensiero passati presenti futuri sono contenuti. È lì che lo scrittore deve soggiornare, se vuole scrivere. E da lì deve fuggire, se vuole vivere. Ma non sempre l’evasione è possibile.
A proposito della sua sensibilità esacerbata e della sua memoria da savant, Proust dice che esse non costituivano un vantaggio né per la sua vita che non sapeva mai che direzione prendere né per la sua scrittura perché tali (involontari) eccessi mnemonici e percettivi non facevano che gettarlo in uno stato d’inestricabile confusione. Sentire troppo può portare alla pazzia per eccesso di accumulazione di dati sensibili: ecco allora la scrittura come rimedio, come terapia, come strumento per svuotare l’universo mentale sovraccarico (nonché per recuperare il mondo dallo sfacelo), costruendo con la penna mondi nuovi, circoscritti dalle pagine e perciò ordinati. (Al riguardo, basta osservare i manoscritti proustiani e le relative paperolle di note e fogli aggiunti da ripiegare sul lato esterno della pagina per rendersi conto di come (e quanto) Marcel cercasse ossessivamente di rimediare al disordine del mondo con miriadi di retouches e correzioni – guarda caso – apposte per stratificazioni. Il suo obiettivo: la perfezione. – La raggiunse.).
Un cervello umano, uno qualunque, ogni giorno riceve migliaia di miliardi di stimoli, la stragrande maggioranza dei quali viene scartata automaticamente prima di essere elaborata. Ma se la porzione cerebrale deputata al lavoro di filtraggio degli input sensoriali non funziona correttamente, se le maglie del colino sono troppo larghe, voi mi capite, passa troppa roba, vivere è impossibile. Forse per questo, anche se non soltanto per questo, tra gli artisti, gli scrittori sono quelli maggiormente propensi al suicidio. Non perché manchi loro lo stimolo alla vita, ma perché di stimoli, ne ricevono in eccesso, sia dal mondo esterno sia da se stessi, sotto forma di pensieri indifferenziati, trapelati dall’inconscio, irrompenti nella coscienza che non ha né potrebbe avere gli strumenti (potentissimi) che sarebbero necessari a gestirli, né argini abbastanza saldi da poterli contenere. Perciò lo scrittore deve scrivere. Non si tratta di un vezzo, di un hobby e nemmeno di una passione, ma di un’urgenza organica tale e quale alla defecazione. Certe cose non si possono trattenere a oltranza. Così se lo scrittore soffre di stitichezza scritturale, voi mi capite, le cose si complicano, e parecchio. Ma anche un andamento regolare nell’espletamento delle funzioni organico-scritturali non garantisce allo scrittore la salute mentale che egli sogna. Alcolizzati cronici, drogati, giocatori d’azzardo e puttanieri della più bell’acqua infoltiscono le schiere degli ambienti letterari.
Lo chiedo a voi: Che cosa sono tutte queste dipendenze se non rozzi tentativi di placare l’esuberanza delle energie vitali, l’eccesso di stimolazione mentale involontaria, auto generata e auto inflitta che lo scrittore subisce suo malgrado?
Dove può trovare un po’ di pace (vera) lo scrittore?
Nella scrittura, ovvio, sua salvezza e dannazione.
Non nel successo, invece, perché è un elemento esterno al sé (scritturale e umano), e in quanto tale crea dipendenza (e orrore). Vero è che Flaiano sosteneva argutamente: L’insuccesso mi ha dato alla testa. Vero è che Guido Morselli all’ennesimo rifiuto del suo Dissipatio H.G. si tolse la vita (immediatamente dopo la sua morte il romanzo divenne un best di Adelphi: ve ne suggerisco la lettura, ma soltanto se navigate per mari d’umori leggeri, trasparenti). Vero che di casi come questo, se ne contano a centinaia. Ma è altrettanto vero anche il contrario. Il successo artistico e di vendite non risparmiò il suicidio né a Hemingway (da poco aveva ricevuto il Nobel), né alla grandissima Virginia Woolf, colei che rivoluzionò il concetto stesso di romanzo, che inaugurò la tecnica del flusso di coscienza, che dotò i suoi personaggi di una potentissima energia psichica e emotiva, che innovò la lingua inglese, che già in vita era considerata una delle più grandi romanziere del Novecento.
Non nel successo, dunque, sta la pace dello scrittore. Ma nemmeno nell’amore di coppia o nell’affetto degli amici. Lo dimostra la fine tragica della stessa Woolf, ciclicamente perseguitata dalla depressione e rapsodicamente ossessionata dalle sue voci. Nemmeno la venerazione, il culto, l’adorazione del marito, Leonard Woolf, che dopo un tentativo di suicidio della moglie, per aiutarla a ritrovare fiducia e equilibrio la sostenne nella fondazione di un’impresa editoriale (che pubblicò tra gli altri la Mansfield, Italo Svevo, Freud, T.S. Eliot, Joyce e la stessa Virginia), nemmeno la compagnia ricevuta nelle “serate del giovedì” del Bloomsbury set, gruppo di amici di Virginia, intellettuali di grande levatura che si incontravano per discutere di politica, letteratura e arte, nemmeno l’impegno sociale (sotto forma di ripetizioni serali che prese a impartire gratuitamente alle operaie di un collegio periferico di Londra), nemmeno l’amore che la stessa Virginia nutriva per Leonard poterono alla fine impedirle di scendere al fiume Ouse e di entrarvi con le tasche della veste zeppe di pietre. Ecco il suo biglietto d’addio al marito.
“Carissimo, sono certa di stare impazzendo di nuovo. Sento che non possiamo affrontare un altro di quei terribili momenti. E questa volta non guarirò. Inizio a sentire voci, e non riesco a concentrarmi. Perciò sto facendo quella che sembra la cosa migliore da fare. Tu mi hai dato la maggiore felicità possibile. Sei stato in ogni modo tutto ciò che nessuno avrebbe mai potuto essere. Non penso che due persone abbiano potuto essere più felici fino a quando è arrivata questa terribile malattia. Non posso più combattere. So che ti sto rovinando la vita, che senza di me potresti andare avanti. E lo farai lo so. Vedi non riesco neanche a scrivere questo come si deve. Non riesco a leggere. Quello che voglio dirti è che devo tutta la felicità della mia vita a te. Sei stato completamente paziente con me, e incredibilmente buono. Voglio dirlo – tutti lo sanno. Se qualcuno avesse potuto salvarmi saresti stato tu. Tutto se n’è andato da me tranne la certezza della tua bontà. Non posso continuare a rovinarti la vita. Non credo che due persone possano essere state più felici di quanto lo siamo stati noi. V.”
Non so voi, ma io sono in un bagno di lacrime.
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