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Yan dell’Illinois

Yan dell’Illinois

Ma torniamo a Yan, Yan dell’Illinois. Arrivò a Samui senza difese. Arrivò a cuore aperto e a portafoglio aperto come un presuntuoso, come un coglione, come un vero americano. Arrivò una decina di anni fa con ottantamila dollari U.S. in contanti imboscati in valigia – un gruzzolo in gran parte ereditato dalla madre morta da poco, cui si aggiungevano i risparmi risicati di una vita spesa tutta a Chicago come giornalista free lance per il Chicago Tribune e per un paio di testate di secondo piano. Al tempo Yan aveva cinquantaquattro anni. Era più brutto che bello, ma non inguardabile come divenne poi quando si avvicinò alla fine. La conobbe appena arrivato, in un gogo bar di Bo Phut. Lei era una lady bar non bellissima, già passa per il mestiere, trentatré anni compiuti, ma ancora graziosa. Yan dimenticò che era una lady bar ancora graziosa, tenne conto solo del fatto che non era particolarmente bella, che era sulla via del tramonto. Yan era solo, si sentiva solo, voleva l’amore, e che diamine mamma era appena morta! La sera stessa si portò a letto la via del tramonto e per mostrarle affetto – no, per farsi bello agli occhi di lei e ai propri – la pagò il quintuplo della tariffa in vigore. Il mattino dopo lei se ne tornò al suo bar dove di giorno, a serrande abbassate, dormiva insieme a tutte le altre. Non appena se ne fu andata, Yan pensò che la amava e per tutto il giorno non pensò a altro. La sera stessa, seduto accanto a lei al bancone del gogo bar, disse Ciuda, ti amo. Due sere dopo Ciuda gli disse di amarlo a sua volta. Glielo disse sempre lì al bancone, senza pronunciarne il nome, fissandolo intensamente negli occhi con un cocktail in mano, la sigaretta nell’altra, e le gambe nude accavallate che guardavano dal lato opposto a quello dove sedeva lui. In capo a tre giorni lei si era trasferita nella casa affittata da Yan, un appartamento decoroso con piscina condominiale immerso in una sorta di giungla addomesticata fuori del caseggiato di Bangwrak. Di lì a una settimana, Ciuda conosceva tutto di lui, vita, morte, miracoli, gusti, predilezioni, idiosincrasie, ammontare del conto in banca. Visto che si era sistemata, smise di andare al bar, smise di lavorare, però si tenne stretti i clienti abituali che visitava regolarmente a insaputa di Yan, adducendo ogni volta la scusa di incontrarsi con le sue amiche. In fondo, lui parlava un inglese incomprensibile, perciò era normale che lei avesse voglia di passare un po’ di tempo con le amiche – che male c’era, che male c’era? Malgrado Ciuda tradisse Yan abitualmente, a detta dello stesso Yan quella donna fu l’unico raggio di felicità nella sua vita scombinata.

Potrei fermarmi qui tanto la morale è chiara. Se continuo è perché, malgrado tutto quello che Yan mi fece passare (o meglio, che gli permisi di farmi passare), gli sono grato per avermi ispirato non poche connotazioni del protagonista del primo romanzo della mia Trilogia Siamese, Madam, tutt’un’altra storia. Perciò qualche riga ancora se la merita, dopotutto.

L’unico raggio di felicità in quella vita sciroccata lo rese felice per un paio di mesi, forse qualcosina di più. In quei giorni di grazia la sua fiamma esotica ne conquistò la fiducia incondizionata, la fiducia cieca che gli innamorati, i veri innamorati, si devono l’un l’altro, e un mattino caldo e nuvoloso i due si portarono alla banca dove Yan aveva depositato il suo gruzzolo. Dopo qualche firma sotto lo sguardo deferente del vicedirettore impomatato, il conto esclusivo di Yan si era magicamente convertito nel conto cointestato della neonata coppia.

Quando, una settimana dopo, Ciuda gli propose di aprire un negozio utilizzando il cinquanta per cento della somma depositata, Yan da principio fu titubante. Non era tagliato per gli affari, era un intellettuale, lui. Poi però, riflettendoci sopra come solo gli intellettuali sanno fare, si rese conto che quella somma non sarebbe stata sufficiente a garantire alla coppia una rendita perpetua. Prima o poi il conto si sarebbe prosciugato e loro sarebbero invecchiati in miseria. C’è da dire che in queste tristi elucubrazioni Ciuda gli fu di grande aiuto. Chi affetta il patrimonio prima o poi resterà al verde, ma chi lo investe oculatamente guadagnerà per tutta la vita. Forse non furono esattamente queste le precise parole con cui alla fine lo persuase, ma il senso è quello. Una buona metà della somma, dunque, prese il volo dalla banca e venne convertita in auto e moto, arredi e lavatrici, e in quant’altro a insindacabile giudizio di Ciuda era necessario per l’avviamento di un negozio degno di questo nome. In un amen Yan si ritrovò immerso nell’enigmatico mondo degli affari, reso ancora più indecifrabile dal fatto che nessuno capiva un accidente di quello che diceva lui e che lui non capiva uno iota di quello che dicevano loro. Provvidenzialmente Ciuda si teneva sempre al suo fianco, pronta a passare in un battito di ciglia dal ruolo di interprete simultanea a quello di consigliera esperta. In capo a un mese gli acquisti erano terminati, ogni cosa sistemata, e un giovedì pomeriggio ci fu l’inaugurazione del negozio che per desiderio di Ciuda venne chiamato Lilauadii, Il frangipani, com’era scritto in cubitali caratteri thai sull’insegna verde e nera. Quel giovedì Yan era l’unico uomo e l’unico occidentale presente. Mentre le ex-colleghe di Ciuda sciamavano cinguettando complimenti dentro e fuori del locale con una birra in mano e una costina di maiale arrosto nell’altra, Yan si diede all’occupazione più invalsa tra gli esclusi a casa propria: bevve. Tracannò bottiglie su bottiglie di birra Chang e tracannò anche un mezzo bottiglione di whisky di produzione locale dal nome illeggibile e dall’abboccato perforante. Di tanto in tanto posava il beveraggio del momento e per darsi un tono sfarfallava di qua e di là con una pelle di daino in mano a lucidare i cofani e le maniglie delle auto che le amiche di Ciuda palpeggiavano di continuo con le loro dita unte di grasso di maiale. Poi tornava al suo angolino tra il cofano di una Toyota Altis e il manubrio di una Yamaha Fino e beveva beveva e restava lì impalato, mezzo incastrato tra le lamiere a guardare le ragazze, a dirsi che adesso era un business man, in fondo in fondo un re con la sua corte di ancelle, e poi guardava Ciuda, la sua regina, e la trovava bella, e intelligente, e innamorata, e si diceva che era un uomo fortunato per essere passato così repentinamente dall’insipiente solitudine della gelida Chicago all’avvolgente e produttiva felicità dei tropici. Poi, una manaccia inavvertitamente posata su un bagagliaio, due dita che giocherellavano inopinatamente con lo specchietto di un motorino lo strappavano dalle sue speculazioni, lo riportavano tra noi. Toccava subito correre a pulire, strofinare, lustrare, lucidare librandosi come un colibrì in quel groviglio di metallo e carne umana. Le donne lo guardavano, si davano di gomito e sghignazzavano al suo indirizzo. Yan non dava peso: ridere di chi sta facendo il proprio dovere è da sciocchi, lui era un intellettuale e un business man, come poteva curarsi degli sciocchi? Più tardi le donne raccolsero armi e bagagli e si trasferirono nella sala massaggi sull’altro lato del negozio, giacché Ciuda non stava nella pelle dalla voglia di stupirle con i tendaggi e i quadretti e le applique dorate e i tatami e i tessuti fiorati sui tatami – tutta roba nuova, costosa, di prima qualità: tatami originali, giapponesi, mica porcherie cinesi, le persuadeva. Finché una accese l’aggeggio per il karaoke, partì una musica melodica struggente, e quella prese a gorgheggiare nel microfono rime baciate d’amore infranto. Dall’altra parte della parete Yan, sorridendo magnanimamente di tanta ingenuità, finì di tirar via lo strutto dai mezzi profanati, raccolse i bicchieri di plastica mollati dappertutto e ci mise dentro le costine spolpate, poi li dispose ordinatamente su una mensola, in bella vista come vasetti di fiori. Quando ebbe finito di contemplare la sua opera, aprì la portiera di una delle due Toyota Altis lì parcheggiate e prese posto al sedile guida, e ci restò male perché l’abitacolo non profumava di nuovo. Ma poi si disse che era naturale, questa era l’Altis di seconda mano; al che pensò di traferirsi nell’altra che era invece nuova di zecca. Ma venne disturbato dal fatto che il volante si trovava sul lato sbagliato, a destra anziché a sinistra e il cambio a sinistra anziché a destra, e a qual punto tutta la macchina gli sembrò strana e sottosopra, così asimmetrica, così piccola e scarna, e così costosa per essere di seconda mano per di più. Si rassicurò dicendosi che Ciuda l’avrebbe noleggiata quanto prima, forse già dal giorno dopo… sì, lei avrebbe noleggiato tutto il noleggiabile in meno che non si dica – otto mezzi tra auto e moto. Ciuda ci sapeva fare, Ciuda era Ciuda, e Ciuda gli aveva detto che in capo a due anni, forse qualcosa meno, tutti i mezzi si sarebbero ripagati da sé, e a quel punto avrebbero cominciato a guadagnare soldi buoni, soldi veri. Senza contare i guadagni derivanti dai massaggi, e quelli del cambiavalute fronte strada e della lavanderia automatica sul retro. Sempre lei, Ciuda, gli aveva detto e ripetuto che avrebbero fatto tanti ma tanti di quei soldi che di lì a tre anni si sarebbero comperati una casa sulle alture, una bella villa moderna con piscina esclusiva, tante palme e vista oceano, e avrebbero passato il tempo a far l’amore e a non far niente. Jenny, la sorella di Ciuda, si sarebbe occupata del negozio. Di Jenny c’era da fidarsi. Anche lei lavorava al gogo bar dove aveva lavorato Ciuda, e malgrado fosse bassa e paffutella, esibiva uno sguardo penetrante che denotava perspicacia e rifletteva lampi di lungimiranza. Senza contare che quel suo cigarillo nero perennemente incastrato all’angolo della bocca era di per sé garanzia di irresistibile carisma. Con Jenny al comando, gli affari avrebbero prosperato, e loro due sarebbero scesi al negozio soltanto per riscuotere. Yan pensava queste cose e altre più vaghe ma sempre colorate dell’azzurro e oro della Gloria e intanto passava e ripassava il palmo della mano sulla corona del volante della Altis e si diceva di aver fatto la mossa giusta, il colpo vincente dopo una vita quasi di stenti dopotutto. Di tanto in tanto si guardava nello specchietto retrovisore e sorrideva, sorrideva e si piaceva molto, e due o tre volte tirò fuori la lingua al suo indirizzo e strizzò l’occhio nel gesto un po’ lubrico, vagamente sexy di chi pregusta l’odore del denaro fresco in arrivo, e di tanto in tanto canticchiava tra sé facendo il verso alla vocetta ovattata e un po’ gracchiante che gli arrivava dall’altra stanza. Improvvisamente e a sua insaputa, un tarlo prese il sopravvento nella chimica del suo cervello zuppo. E mentre si dannava per trovare sulla console il triangolino rosso o la striscia rossa sulla rotella o sulla leva o dove diavolo fosse quel dannato comando dell’aria calda che alla fine, dovette ammettere, per via del clima non c’era proprio, quel tarlo, dubbio, cosa senza nome, rodimento, confusione, capogiro, forse un’intuizione prese il sopravvento sul suo mondo dei sogni, bucò il tessuto della realtà e si materializzò in questo mondo materiale in forma di vomito. Una poltiglia gialla gli risalì da dentro e si scagliò violentemente sul cruscotto, e Yan vomitava ancora sulla plancia e tra le razze del volante quando Jenny bussò al finestrino e con gli occhi sconcertati fissi sulla filza di bicchieri con le costine dentro disse senza abbassarsi Cosa fai qui tutto solo soletto, Ciuda ti vuole per cantare una canzone americana.

A quel punto Yan cadde in coma etilico. O forse perse i sensi in un moto inconsulto di difesa disperata. Comunque sia, quando tornò in sé era sera fatta e si trovava nel suo letto. Fece per tirarsi su ma il dolore lo fece rimbalzare all’indietro. La testa gli scoppiava in una pulsazione che premeva dall’interno verso l’esterno e viceversa, andata e ritorno. Per metà della notte stette lì a guardare il buio, chiudere gli occhi, cercare di dormire, riaprire gli occhi, e il buio era sempre lì che lo schiacciava come una pressa. Quando Ciuda arrivò erano passate le quattro del mattino. Yan disse Ciao Ciuda. Lei non lo guardò e non disse nulla. Lui disse Com’è andata la festa? Lei seguitò a non guardarlo in silenzio. Lui disse Sei arrabbiata, lei guardò il cellulare e ancora una volta non disse niente. Lui disse Dai, dimmi com’è andata la festa e lei disse Pud mak, parli troppo, e anche questa volta non lo guardò, guardava ancora il cellulare. Poi posò il telefono e si ficcò a letto. Lui disse Mi scoppia la testa, lei disse di nuovo Parli troppo. Lui allungò una mano sul suo fianco. Lei la tirò via sgarbatamente. Lui disse Sorry, lei disse Fuck.

Il mattino dopo Ciuda disse Che non accada mai più; lui disse Perché; lei disse Fuck. Il giorno dopo ancora, ripresero a parlare. Ciuda gli disse che si era giocata la reputazione sotto gli occhi delle sue amiche. Yan sapeva cos’era la reputazione, ma ne aveva un’idea tutta sua, un’idea prettamente occidentale. Ignorava che per Ciuda la reputazione era tutto. Perciò indossava sempre il reggiseno, anche ai tempi del gogo bar. Una lady bar fa i pompini ai clienti occasionali, ma siccome è una donna perbene indossa sempre il reggiseno. Questo paradigma cristallino era oscuro a Yan. Yan non sapeva che per il Kon Thai, per il popolo thai, la reputazione è tutto. Non sapeva che una cosa è il mestiere, una cosa è la persona. Una cosa la sex machine, una cosa la donna. Di questa schizofrenia etnica Yan non era al corrente. Quel che è peggio è che non era al corrente nemmeno dell’altra schizofrenia. Ciuda lo amava – i suoi occhi mandorlati dilatati quando facevano l’amore ne erano la prova conclamata – e Ciuda lo odiava. Lo odiava a priori, sin dalla prima volta in cui l’aveva incontrato, quando al suo ingresso al gogo bar lei l’aveva apostrofato con un Hello datlin che lui aveva inteso come Hello darlin’. Lei gli aveva detto Ciao buco di culo di scimmia e lui aveva capito Ciao caro. Ciuda lo odiava a priori perché era un farang, uno straniero, un non-thai, un cane. Lo odiava perché aveva i soldi. Lo odiava perché la pagava. Lo odiava perché era grande e grosso e il suo cazzo le faceva male. Lo odiava perché era vecchio. Lo odiava perché puzzava. Lo odiava perché a scopare si credeva bravo. Lo odiava perché ci metteva troppo a venire. Lo odiava perché le credeva quando lei fingeva di venire. Lo odiava perché gli stranieri vanno odiati. Non parlano la mia lingua e quando si provano sbagliano i toni da far schifo, non mangiano il mio cibo piccante e quando lo mangiano lo vogliono non troppo piccante, non vanno al mio tempio e quando ci vanno ci vanno in costume da bagno, non pensano a oggi e pensano troppo pensando sempre a domani, quando si arrabbiano alzano la voce, mostrano le loro emozioni anziché mostrare sempre il sorriso, vengono a casa mia e pretendono che parliamo la loro lingua, vengono a cosa mia e parlano sempre della loro di casa, di quanto è meglio della mia, vengono a casa mia e si comportano da padroni, ma noi non siamo stati colonizzati come gli altri, a noi non ci ha mai messo sotto nessuno, mai mai mai, noi siamo thai. Noi siamo il Kon Thai e voi siete cani.

Come Yan mi ragguagliò in seguito, la perdita della reputazione da parte di Ciuda non fu ovviamente il movente del piano ma solo una fortuita spinta in avanti verso la sua attuazione; altrimenti detto: l’eiezione gialla sul cruscotto della Altis fu soltanto un elemento propulsivo nella concatenazione delle mosse già architettate da Ciuda con largo anticipo.

Qualche giorno dopo l’inaugurazione Yan si portò a uno sportello Bankomat per prelevare del contante. La macchina gli rifiutò il consenso. Credito non disponibile, ammoniva una scritta lampeggiante sullo schermo. Yan provò con un altro sportello, ma l’esito fu lo stesso. Tentò con altre due macchine e ottenne lo stesso risultato. Al che si portò alla sua banca. L’impiegato allo sportello gli disse senza mezzi termini che il suo conto era a zero. Yan disse Scherza vero? L’impiegato sorrise. Disse Non mi permetterei. In quattro falcate Yan raggiunse l’ufficio del vicedirettore. Varcò la soglia senza bussare e si fece avanti con passo pugnace urlando come un demonio. Il vicedirettore alzò lentamente lo sguardo da un registro ingiallito che occupava una buona metà della scrivania e lo fissò con occhi inespressivi. Quando Yan ebbe finito di gridare, il vicedirettore sorrise e disse Scusi, non ho capito, e sì passò le dita a pettine tra capelli nerissimi, allisciati all’indietro, impomatati come quelli di un cantante anni Sessanta. Urlando più forte Yan ripeté le stesse parole, sempre le stesse, come un disco rotto. Il vicedirettore lo osservava con l’acribia di un entomologo che osserva un insetto sconosciuto. Nel frattempo con le nocche spianava i revers lilla della sua giacca color porpora. Quando ebbe finito con i risvolti, sfilò lo spillone d’oro che tratteneva la cravatta e poi lo riappuntò due centimetri più in alto. La cravatta era lilla come i revers e portava ricamato nel mezzo il logo dorato della banca. Quando Yan smise di gridare, il vicedirettore disse Sieda, prego. Con la mano aperta gli indicò una poltroncina rossa e viola davanti alla scrivania. Yan prese posto ribollendo.

L’altro disse Mi sembra di aver capito che non è soddisfatto della nostra banca, è così?

Yan lo guardò.

Il mio conto è a zero.

Il vicedirettore digitò qualcosa sulla tastiera del computer, poi gettò uno sguardo allo schermo.

Proprio così.

Per sopprimere l’impulso di riprendere a gridare, Yan addentò il labbro inferiore.

E potrei sapere per quale motivo il mio conto è a zero?

Come, non lo sa?

No, non lo so, me lo dica lei, il labbro di Yan rilasciò una goccia di sangue.

Ieri ho avuto il piacere di incontrarmi con la signora Ciuda.

Ah sì, Yan si torse le mani.

Una signora affabile, una cliente come poche.

E…

E mi ha gentilmente chiesto di trasferire tutta la giacenza in quel momento presente sul conto comune su un nuovo conto intestato a suo nome, a nome della signora, intendo.

Yan fece un salto sulla poltrona.

E lei l’ha fatto? Ora Yan tremava.

Certamente, come avrei potuto rifiutarmi?

Mi faccia capire…

Sono qui per questo, disse il vicedirettore in un sorriso franco.

Il conto era comune, sì o no?

Appunto.

E allora, gridò Yan e scattò in piedi. Poi tornò a sedere e abbassò il tono. E allora com’è possibile che Ciuda.

La signora Ciuda.

Che la signora Ciuda abbia trasferito tutto il denaro dal conto comune a un conto esclusivamente a suo nome.

Oh, basta una firma, non lo sapeva?

No, non lo sapevo.

Il vostro conto comune, il conto che adesso è a zero per capirci, era a firma disgiunta, non sapeva nemmeno questo?

No.

Scusi, lei dove vive?

Yan fu lì per tuffarsi e strangolare il vicedirettore. Ma restò immobile, immobile e tremebondo come un bollitore dimenticato sul fornello accesso.

Strano che lei, signor… mi perdoni, ho scordato il suo nome.

Yan, mi chiami Yan.

Che lei signor Yan non lo sapesse, dato che negli ultimi mesi lei stesso ha eseguito ingenti pagamenti con la carta di debito della nostra banca.

E quindi?

Quindi, così come lei poteva disporre a suo piacimento delle somme depositate sul conto comune, altrettanto poteva fare la signora Ciuda. Tant’è vero che l’ha fatto.

Ma si trattava di acquisti fatti per il nostro negozio…

Le causali dei pagamenti non sono di pertinenza del sistema bancario.

Senta, disse Yan, raddrizzando la schiena e protendendosi in avanti. Posò le mani sulla scrivania. Disse C’erano più di trentacinquemila dollari su quel conto, ho verificato al Bankomat meno di una settimana fa.

Nossignore, al momento del trasferimento della giacenza c’erano un milionecentocinquantasettemilatrecentoventisette bath, fece il vicedirettore individuando la cifra sullo schermo del computer.

Infatti, all’incirca trentacinquemila dollari americani.

Senta, per quanto i rapporti con i nostri amici americani possano dirsi ottimi sin dai tempi del Vietnam, le ricordo che qui non siamo negli Stati Uniti d’America, signor Yan. Qui siamo nel Regno di Thailandia, e questa è una banca thailandese che opera in thai bath, e mi duole informarla che i suoi thai bath ora non sono più suoi.

Le duole?

Mi duole ribadirle che adesso appartengono esclusivamente alla signora Ciuda. Ora, mi scusi, ho da fare, mise gli occhi sul suo registro e senza più alzarli camminò con le dita e artigliò la penna.

Ha da fare? Ha da fare? Yan si buttò a pesce sulla scrivania con le mani protese che ghermivano il collo del vicedirettore.

Cinque minuti dopo volò fuori dalla banca. Sbatté violentemente a terra e se ne stette lì tutto rannicchiato sul marciapiede a riprender fiato e a gemere, a palparsi i reni e l’addome cercando di lenire il dolore atroce nei punti in cui l’agente della sicurezza l’aveva ripetutamente colpito con le nocche quando era accorso all’ufficio del vicedirettore. Il quale, poco dopo, comparve sulla soglia. Si portò a fianco dell’agente e slacciò i bottoni della giacca. Squadrò Yan dall’alto in basso. Sorrise. Disse pacatamente Ringrazi di essere cittadino americano, altrimenti a quest’ora sarebbe in cella. Ora si tolga di lì e non si faccia più vedere! Sfilò lo spillone, sorrise, e con due dita sventolò la cravatta all’indirizzo di Yan. Poi rimise a posto spillone e cravatta, riabbottonò la giacca, si passò una palma prima su una tempia e poi sull’altra e infine fece dietro front con la solennità di un ufficiale alto in grado.

Qui finisce la prima parte della storia di Yan di Chicago, così come me la raccontò sette anni fa nel corso della nostra prima lezione di inglese, o meglio, così come riuscii a ricostruirla e a romanzarla nella mia testa dopo che me l’ebbe ripetuta all’infinito, lezione dopo lezione, sempre con quel suo accento chicaghiano impossibile e sguaiato, ogni volta gemendo e mugugnando, borbottando e frignando come io non fossi uno sconosciuto come un altro che lo pagava a ore per ripassare grammatica e sintassi della lingua inglese, ma il suo peggiore amico o il suo miglior nemico, la sua mamma o il suo psichiatra, insomma quello su cui vomitare le sue pene. Se professionalmente Yan si rivelò il peggiore insegnante della mia vita, umanamente parlando fu un esempio grandioso da non seguire, così che quando la notte nel prender sonno vedo buio davanti e dietro gli occhi chiusi e vedo ancora buio davanti agli occhi aperti e penso che uno scampolo di pelle umana al mio fianco mi sarebbe di sollievo, penso anche, subito dopo, che la mia pelle, salva anche per oggi, mi basta e avanza; e mi va bene così… credetemi figli d’Occidente, mi va da dio così.

© 2020 by Giulio D.M. Ranzanici

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